11/10/2022
Nuovo numero....nuove letture con la storia del nostro territorio!
EDITORIALE
Presentiamo un fascicolo ancora una volta equilibrato tra medioevo, prima età moderna e storia contemporanea, e ancora una volta ben nutrito di edizioni documentarie.
Dopo avere ricordato come San Gimignano si sia subordinata al dominio di Firenze all’inizio degli anni Cinquanta del XIV secolo in seguito al violento calo demografico portato dalla peste del 1348 e a un convulso periodo di lotte intestine, Jacopo Paganelli ricostruisce i momenti della massiccia e crescente pressione fiscale esercitata dai Fiorentini, dunque non un aiuto alla ripresa bensì un ulteriore aggravio sulle finanze della cittadina. A fronte di questa situazione le autorità comunali sangimignanesi ebbero ricorso a operazioni di mutuo, talora garantite dai proventi della Gabella, e alla partecipazione all’acquisizione dei beni ecclesiastici deliberata da Firenze in ogni luogo del dominio, segnatamente in seguito alla guerra degli Otto Santi iniziata nel 1375 che oppose una lega di città toscane comandate da Firenze a papa Gregorio XI e ai suoi alleati. Jacopo Paganelli sottolinea con insistenza come in tali operazioni intervenisse sempre una serie di «reti di ‘amicizia’» intessute dai ceti dominanti sangimignanesi e produttrice di mediazioni tra il Comune di San Gimignano e la dominante, non senza alcuni suggerimenti ai mediatori affinché non esagerassero le richieste di mitigazione del debito nei confronti dei Fiorentini. Più problematica la gestione dei beni delle chiese per i quali la dominante volle imporre un acquisto forzoso a carico del Comune: già in altri studi l’Autore ha messo in luce una resistenza delle chiese pievane, strette da legami personali all’establishment laico comunale, agli espropri fiorentini. Adesso sottolinea come, nonostante resistenze, mitigazioni e mediazioni, San Gimignano abbia conosciuto il peggioramento della sua situazione finanziaria anche dopo la fine della guerra degli Otto Santi e la parziale smobilitazione dell’esercito fiorentino.
Si colloca nel Quattrocento il testo molto interessante per la storia economica e sociale – già trascritto da Oretta Muzzi, commentato da Marja Mendera, ma mai pubblicato, e qui sistemato e rivisitato da Franco Ciappi – di un registro di debiti e crediti dell’officina vetraria di Carlo di Marco di Uberto degli Strozzi (Archivio di Stato di Firenze, Carte Strozziane, IV, 65, cc. 1r-65r). Franco Ciappi ha integrato l’edizione del Libro con quelle di alcuni documenti privati degli anni intorno al 1429 che attestano la licenza e l’accomandita di una fornace di bicchieri in favore dell’artigiano. Sono in effetti i bicchieri i principali prodotti di produzione di Carlo di Marco degli Strozzi, come si evince dal Libro. Del quale si sottolinea come, essendo i dati quantitativi limitati ai prodotti da restituire o risarcire, essi non possano essere utili per calcolare la produzione mensile della vetreria. Servono bene invece a valutare le percentuali dei vari prodotti. Situati come si è detto al primo posto (63,76%), i bicchieri sono seguiti con una certa distanza dai fiaschi (11,22%) e dalle «melarance» (11,14%) (Ciappi spiega in nota il possibile significato dell’oggetto, tuttora non chiaro). Quanto ai luoghi di acquisto, essi sono principalmente Firenze e le sue vicinanze, e i mestieri degli acquirenti vedono «quasi esclusivamente» «speziali, stovigliai, pizzicagnoli, qualche vinattiere, orciaioli, bicchierai, albergatori, preti e, sporadicamente, un bottaro, un oste, un filataio, un funaiolo e un fabbro». Le loro provenienze vedono un numero elevato di Gambassini (era la cittadina di origine dei vetrai, il cui radicamento in Gambassi è stato riccamente illustrato di recente da Franco Ciappi e Silvano Mori) e tre esponenti di Montaione, tra i quali il locale Comune. Le vendite sono ovviamente dislocate su un territorio molto vasto, non solo il contado fiorentino ma anche località del distretto e talora oltre, come Pistoia e Bologna.
Due saggi corposi ci recano negli anni del primo dopoguerra mondiale e dell’avvento del fascismo, poi più oltre nel tempo sino alla seconda guerra mondiale e al secondo dopoguerra e ai problemi della società rurale e dell’avanzata del movimento comunista nelle campagne. Dunque lo spessore cronologico dei due saggi (dovuti rispettivamente a Marco Lisi e a Roberto Boldrini) è molto diverso.
L’accurata ricostruzione dei fatti che portarono alle dimissioni del primo sindaco socialista di San Gimignano, Antonio Pasqualetti, ad appena a un anno di distanza dal suo insediamento, copre un periodo molto breve, anche se Marco Lisi fornisce un inquadramento generale in quei nervosi e drammatici tempi. Le elezioni amministrative dell’autunno del 1920 videro i Socialisti in assoluta maggioranza, anzi esclusivi componenti del Consiglio comunale con trenta eletti su trenta, in seguito alla scelta astensionista dei Liberali e dei Popolari. Fu un mutamento radicale anche riguardo alla fisionomia sociale del Consiglio: «sei coloni, quattro muratori, due braccianti, due calzolari, due esercenti, un falegname, un macellaro, un cestaio, un barbiere, un commesso». Alla celebrazione rossa, con bandiere rosse e il plauso del giornale dei Socialisti senesi «Bandiera Rossa - La Martinella», rispose senza intervallo di tempo in Valdelsa e in tutta la Toscana la violenza dei fascisti. Sempre più intensa tra l’autunno del 1920 e i primi mesi del 1921, la mobilitazione fascista non venne frenata dalle elezioni politiche del 15 maggio 1921, quando a San Gimignano i Socialisti ottennero il 58,7% dei voti. Un episodio cruento, l’uccisione il 17 maggio di Adamo Borri, un «boscaiolo iscritto al Partito Socialista, ma senza nessun incarico politico», segnò un culmine della violenza fascista a San Gimignano. Ma non fu questa la causa scatenante delle dimissioni del sindaco Pasqualetti, travolto invece da questioni squisitamente interne alla gestione comunale. Essa aveva conosciuto, come in ogni amministrazione socialista, le difficoltà dovute a un debito pubblico non facilmente recuperabile e a una normale dose di inesperienza, e di fronte all’aggressività fascista il sindaco espresse in un pubblico messaggio alla cittadinanza l’auspicio che si realizzassero «reciproche, leali, spiegazioni o dichiarazioni fra le parti convenute», tali da condurre «al rispetto reciproco nel campo personale e politico; sicché ritorni la calma negli animi a vantaggio di proficuo lavoro per il nostro paese, per le nostre famiglie, per l’Italia nostra». Un atteggiamento pacificatorio e in sostanza debole, nella temperie del momento. Nel frattempo maturava la spinosa questione delle celebrazioni per l’anniversario dantesco, largamente egemonizzate dalle forse nazionaliste e fasciste, così da suscitare prima diffidenza e poi decisa ostilità in larga parte del movimento socialista. Se il sindaco Pasqualetti aveva in buona fede sostenuto uno stanziamento per la solennizzazione dantesca, una maggioranza all’interno del Partito Socialista lo sconfessò, affermando che «vi è per l’aria troppo odore di polvere, troppe mani sono lorde di sangue fraterno, troppe sono le ingiustizie sociali a danno dell’umanità in catene perché si possa festeggiare degnamente senza suscitarne lo sdegno, colui che si erige maestoso e altero sopra le miserie umane di questa vile e corrotta società borghese». Venne dunque deliberata a larga maggioranza l’astensione dalle cerimonie e il sindaco fu in buona sostanza accusato di avere deviato dalla giusta opposizione socialista a cerimonie oramai offuscate dall’ispirazione nazionalista. Il saggio di Marco Lisi è dunque molto interessante, in questi tempi di celebrazioni dantesche, perché ne rievoca un uso strumentale e antistorico (comune a tutte le parti in causa), che non sarebbe cessato, a sommesso giudizio di chi scrive, dopo gli anni Venti dello scorso secolo.
Su un periodo molto lungo si estende il saggio documentario curato da Roberto Boldrini intorno al carteggio intercorso fra due possidenti valdelsani, Paolo Guicciardini (1880-1955) e Massimiliano Majnoni (1894-1957), tra gli anni Venti-Trenta e il secondo dopoguerra. Al centro sono le questioni della proprietà terriera e della sua gestione, con la problematica prima della buona scelta di un fattore e poi della crisi della mezzadria e dell’insorgenza di lotte contadine egemonizzate infine dal movimento comunista. Con molta sapienza Roberto Boldrini ha intersecato il commento storiografico con ampie citazioni delle lettere intercorse fra i due personaggi. Emblema, penso si possa dire, di una sostanziale inerzia dei due possidenti nei confronti delle vicende politiche, in primis del fascismo, la cui caduta non viene deplorata ma suscita il timore che con essa cada anche la monarchia, alla quale i due possidenti si sentono fortemente legati. Né mancano interessanti atteggiamenti di minimizzante buon senso e di presa di distanza anche culturale rispetto alle rivendicazioni contadine:
Però ti voglio dire – scrive il Majnoni al Guicciardini nel settembre del 1944 – che le ferite fatte alla terra si rimarginano prestissimo. E scommetto che in pochi anni tu rivedrai Cusona rifiorire, anzi rifiorita, forse in modo diverso, ma certo ancora piena di bellezza, di piante, di fiori. Quindi non ti scoraggiare Paolo caro. E non t’affliggere per i comunisti. Si sa come sono. Anche l’altra volta li abbiamo avuti. Bisogna lasciare che si sfoghino. Poi si arriva a poter trattare e a potersi intendere. Anche nei loro confronti ci vuol pazienza, come ci vuol pazienza con noi medesimi.
E ancora (Guicciardini a Mainoni, gennaio 1945):
Da due mesi a questa parte i contadini avanzano ogni giorno rivendicazioni le une più sballate dell’altre. Dall’applicazione in regime di mezzadria del patto di Cerignola, che è un patto di compartecipazione, al famoso coscio del maiale, è un susseguirsi continuo di richieste su richieste di miglioramenti economici non giustificati da necessità, né ammessi giuridicamente. Sono iniziative locali, di ispirazione comunista, locali non in senso provinciale, ma nemmeno comunale, e nemmeno fattoriale: spesso è l’iniziativa individuale di un singolo contadino, che rivendica come suo diritto quello che la notte ha sognato. La Camera del Lavoro di Siena, e tanto meno la C[onfederazione] G[enerale] del Lavoro, ignorano quello che fanno le filiali dei vari comuni e non ne condividono le responsabilità: un caos da non si dire.
Al terribile ventennio 1919-1921 illustrato nel saggio di Marco Lisi ci riconduce ancora l’ampia recensione di Elisa Boldrini al recentissimo libro di Francesco Catastini, P. Gennai e A. Pestelli, Liberali, sovversivi e partito dell’ordine a Montespertoli. Concentrazione di potere, gruppi familiari e politica (1919-1921).
Storia religiosa e storia dell’arte, sempre presenti nella nostra rivista, sono adesso rappresentate con un inquadramento tardo medievale e di prima età moderna dal saggio di Francesco Suppa sulle tavole di Giovanni Toscani a San Martino a Pontorme e dalla lunga recensione dedicata da Jacopo Paganelli al libro di Antonella Fabbri, Camaldolesi e Vallombrosani nella Toscana medievale. Repertorio delle comunità monastiche sorte fra XIV e XV secolo.
Una necessaria e dolorosa tristezza ha infine ispirato i ricordi di Sergio Marconcini e Romanello Cantini, redatti da Giovanni Parlavecchia e Giuseppe Rigoli: care memorie, che hanno fatto onore alla nostra Società.
Il Direttore [Paolo Cammarosano]