19/01/2024
18 gennaio 2024
In ricordo di Federico Fuortes
Da "Quasi un Romanzo"
Palla prigioniera
Maledetti bambini, che fine avete fatto?! Come mai non vi ritrovo più? Siete andati via con i vostri monopattini, i cerchi delle biciclette, le palline di vetro, i fottuti curripizzi, che non mi riusciva mai di fare ‘nchiummàre, e – colmo della mia invidia – i palloni.
Il pallone: il mio primo furto. Nella mia infanzia, che a tutti appariva dorata, ero rinchiuso allu Palazzu, senza amici e senza un pallone. C’era la radio, che pochi avevano, e la macchina, la macchina nera, con i finestrini sempre chiusi malgrado il sole del Salento, in cui, immerso nei diversi odori del sudore di bimbi, adulti e vecchia, venivo deportato, insieme ai miei fratellini, verso noiosissime e lunghissime visite in case dove di bambini non ce n’erano.
Gli studi, fino alla prima media inclusa, li avevo fatti a casa, sotto l’amorevole cura di Mamma, poi coadiuvata da due precettori. Palloni niente. E non certo perché non ce lo potessimo permettere: semplicemente, nel cortile, avrebbe rovinato i preziosi gerani della nonna e di giocare fuori, con i terribili “bambini di strada”, cenciosi e pidocchiosi, non era neanche il caso di parlarne.
Poi, un giorno, vidi un pallone (uno vero, uno di cuoio!) imprigionato in un balcone al primo piano di Piazza del Rosario. Dopo qualche giorno era ancora là. Nei rari momenti in cui riuscivo a evadere e a scorrazzare liberamente per Giuliano, passavo sempre sotto quel balcone, chiedendo notizie sulla sua perdurante prigionia. Qualcuno, infine, mi disse che apparteneva a qualche bambino, che con un maldestro calcio l’aveva spedito lassù, dove era stato confiscato perché più non fosse messa a repentaglio l’incolumità dei vetri smerigliati, impreziositi da vistosi monogrammi, dell’emergente faccendiere del paese.
Nessuno aveva il coraggio di chiederne la restituzione e allora elucubrai una giustificazione alla volontà di impossessarmi di quel bene che – con tutta evidenza – non sarebbe mai più tornato nella disponibilità del suo maldestro proprietario. Res nullius? Hmm. Res derelicta? Improbabile. Res rejecta? Una gran forzatura. Res captiva! Illecitamente detenuta, contro il volere di un imbelle, che aveva manifestamente rinunciato a far valere i propri diritti e abbandonato un vero, preziosissimo, pallone di cuoio in mani nemiche.
Decisi di salvarlo, incurante del rischio di essere colto in flagranza. L’operazione, se curata nei dettagli, non avrebbe potuto che concludersi con la liberazione dell’ostaggio, a cui sarebbe stata offerta una nuova e migliore cittadinanza tra le possenti mura del Palazzo, certo non la restituzione al suo sconosciuto e immeritevole proprietario.
Serviva una lunga scala, e ne avevamo una, pesantissima, di legno di olivo. Già, pesantissima: serviva un complice! Serviva una mano vellutata per sottrarre la chiave del portone, con annesso tintinnante chiavino, che ogni sera veniva deposta sul marmo della toilette della nonna. Serviva, poi, alzarsi alle prime luci dell’alba senza mettere la sveglia e vestirsi senza far rumore.
Convincere uno dei fratelli richiese poche parole e nessuna spiegazione: un pallone era un pallone e pur di averlo non si poteva andare tanto per il sottile.
La sveglia all’alba avvenne come se Belzebù mi avesse messo una mano sulla spalla. La presa della chiave, a cui mi ero lungamente esercitato per diversi pomeriggi, avvenne senza tintinnii. L’apertura del portone, di cui avevo lubrificato serratura e cardini con una penna di gallina imbevuta di olio di oliva, fu più silenziosa dello scostarsi di una tenda e il breve tragitto verso Piazza del Rosario si compì in due minuti scarsi.
Appoggiammo la scala alla ringhiera del balcone, salii su in fretta e ne scesi col pallone sotto il braccio. Sulla via del ritorno, un contadino che stava andando al lavoro ci guardò con stupore, ma, facendo finta di niente, si levò la coppula e mi disse: «Bongiornu a’ssignuria, Signurinu meu».
Ed io, maledetto bambino, che fine ho fatto?
Federico Fuortes