Fringe Trek

Fringe Trek Explore. Dream. Discover. Fringe Trek is a different way of looking at and discovering nature. http://cdegra.wix.com/fringetrek

Rather than reaching the destination in the shortest possible time and by ordinary or busy trails, our philosophy is to make the chosen path itself as the core part of the journey, through distinctive routes. Fringe Trek organizes various types of excursions, divided by area, environment, cultural and natural subject and exclusive customized trekking. All trips are planned to be carried out s

afely and in tranquillity, with the help of a professional Walking Leader (G*E). Take a look at our photographic portfolio and imagine yourselves as players in such landscapes. Fringe Trek takes you where others dare not go, can not imagine, and do not know how to. Taking paths that are less known and rarely used can awaken new emotions and ancient feelings. We organize adventures on alternative routes, able to surprise, amaze, rediscover our nomadic origins and find traces of different cultures, sharpen our sense of direction and change our world's perspective.

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Fringe Trek è un diverso modo di guardare e scoprire la natura. La nostra filosofia non è il raggiungere la meta nel minor tempo possibile, attraverso vie consuete e troppo frequentate, ma fare del percorso stesso la parte fondamentale dell’esperienza del viaggio, attraverso la ricerca di itinerari inediti. Fringe Trek organizza varie tipologie di escursioni, suddivise per area, ambiente, interesse culturale e naturalistico, e trekking esclusivi personalizzati. Tutte le escursioni sono progettate per essere svolte in tranquillità e sicurezza, con l'accompagnamento
di una Guida Ambientale Escursionistica professionista. Osservate il nostro portfolio fotografico e immaginatevi da protagonisti negli ambienti ritratti. Fringe Trek vi accompagna dove altri non immaginano,
non osano, non conoscono. Per altri sentieri, meno noti e frequentati, in grado di
suscitare nuove emozioni e sensazioni antiche. Organizziamo avventure su percorsi alternativi, in grado di sorprendere, di stupire, per ritrovare le nostre origini nomadi ed incontrare tracce di culture diverse, per educare il nostro senso dell’orientamento e cambiare la nostra prospettiva del mondo.

14/12/2023

Michael Moore presents a film by Jeff Gibbs, Planet of the Humans, a documentary that dares to say what no one else will — that we are losing the battle to ...

Fin dall'inizio, il tempo aveva lavorato alla mole basaltica di Escudilla, consumando, aspettando, e costruendo. Il temp...
06/09/2023

Fin dall'inizio, il tempo aveva lavorato alla mole basaltica di Escudilla, consumando, aspettando, e costruendo. Il tempo costruì tre cose sulla vecchia montagna: un aspetto venerabile, una comunità di animali minori e piante, e un grizzly. Il trapper del governo che abbatté il grizzly sapeva di avere reso Escudilla sicura per le vacche. Non sapeva di avere mozzato la vetta di un edificio costruito fin da quando le stelle del mattino iniziarono a cantare insieme... Parlavamo duramente degli spagnoli, che nel loro zelo per l'oro e le conversioni avevano estinto senza motivo gli indiani nativi. Non ci rendevamo conto che pure noi eravamo i capitani di un'invasione troppo sicura di essere nel giusto.
Escudilla appare ancora all'orizzonte, ma quando la vedi non pensi più all'orso.
Ora è solo una montagna.

Escudilla

La vita in Arizona era delimitata sotto i piedi dall'erba, sopra la testa dal cielo, e all'orizzonte da Escudilla.
A nord della montagna si cavalcava su praterie color miele. Alzavi lo sguardo ovunque, in qualsiasi momento, e vedevi Escudilla.
Ad est cavalcavi sopra una confusione di mesas boscate. Ogni valletta sembrava un piccolo mondo a sé, baciato dal sole, fragrante di ginepro, e confortevole nel chiacchiericcio delle gazze. Ma bastava uscire su una cresta ed improvvisamente diventavi un granello nell'immensità. Ai suoi confini troneggiava Escudilla.
A sud stavano gli intricati canyons del Blue River, pieni di conigli, tacchini selvatici, e bestiame ancora più selvatico. Quando mancavi un cervo succulento che sculettava il suo addio all'orizzonte, e guardavi attreverso il mirino chiedendoti il perché, guardavi verso una lontana montagna azzurra: Escudilla.
Ad ovest si gonfiavano le protuberanze dell'Apache National Forest. Noi misuravamo alberi lì, convertendo gli alti pini, quaranta per quaranta, in figure sul notes rappresentanti ipotetiche cataste di legname. Arrancando lungo un canyon, il misuratore percepiva una curiosa incongruità tra la remotezza dei simboli sul quaderno e l'immediatezza di dita sudate, spine di locuste, morsi di tafani e scoiattoli bisbetici. Ma alla cresta successiva un vento freddo, ruggente attraverso un mare verde di pini, soffiava via i suoi dubbi. Sulla sponda più lontana pendeva Escudilla.
La montagna delimitava non solo il nostro lavoro e il nostro tempo libero, ma perfino i nostri tentativi di ottenere una buona cena. Nelle sere d'inverno spesso tentavamo l'imboscata a qualche anatra sulle spianate dei corsi d'acqua. Gli stormi sospettosi volavano in cerchio sul roseo ovest, sul nord blu acciaio, e poi scomparivano nell'inchiostro nero di Escudilla. Se riapparivano ad ali spiegate, avevamo un grasso volatile in padella. Se non ricomparivamo, andava ancora una volta di fagioli e bacon.
C'era, di fatto, solo un luogo da dove non vedevi Escudilla all'orizzonte: dalla cima di Escudilla stessa. Lassù non potevi vedere la montagna, ma la potevi sentire. La ragione era il grande orso.
Il vecchio Piedone era un barone delle scorrerie, ed Escudilla era il suo castello.
Ogni primavera, quando i venti caldi ammorbidivano le ombre sulla neve, il vecchio grizzly strisciava fuori dalla sua tana di ibernazione sui pendii rocciosi e, scendendo la montagna, dava una mazzata in testa ad una v***a. Si riempiva a sazietà, e poi si arrampicava nuovamente sui suoi picchi, e lì passava pacificamente l'estate cibandosi di marmotte, coni, bacche e radici.
Una volta vidi una delle sue vittime. Il cranio e il collo della v***a erano spappolati, come se la v***a si fosse schiantata di testa contro un treno merci.
Nessuno vide mai il vecchio orso, ma nelle fangose sorgenti alla base delle pareti si notavano le sue incredibili tracce. Vederle metteva sull'attenti anche i cowboy più navigati. In qualsiasi luogo cavalcassero vedevano la montagna, e quando vedevano la montagna pensavano all'orso. Nelle conversazioni davanti al fuoco da campo si parlava di bestiame, di balli, e dell'orso. Piedone reclamava per sé una sola v***a all'anno e poche miglia quadrate di rocce improduttive, ma la sua personalità pervadeva il territorio.
Quelli furono i giorni in cui il progresso cominciò ad arrivare nel territorio delle vacche. Il progresso aveva vari emissari.
Uno fu il primo automobilista transcontinentale. I cowboy capirono questo apripista; parlava la stessa lingua sfrontata e temeraria dei domatori di cavalli selvaggi.
Non capivano invece, ma la ascoltarono e osservarono, una bella signora in velluto nero che venne ad illuminarli di suffragio femminile parlando in accento bostoniano.
Si meravigliarono, pure, dell'ingegnere del telefono che appese cavi sui ginepri e portò messaggi istantanei dalla città. Un vecchio chiese se il filo poteva portargli una fetta di bacon.
Una primavera il progresso spedì un altro emissario, un trappolatore federale, una sorta di San Giorgio in copripantaloni, alla ricerca di draghi da squartare a spese del governo. C'erano, chiese, animali nocivi da abbattere? Sì, c'era il grande orso.
Il trapper caricò il suo mulo e partì per Escudilla.
Dopo un mese era di ritorno, il suo mulo barcollante sotto una pesante pelliccia. C'era un solo piazzale in città abbastanza ampio per mettercela ad asciugare. Il trapper aveva provato trappole, veleno e tutto il suo solito armamentario senza esito. Allora eresse una trappola con il fucile lungo un passaggio in cui solo l'orso poteva passare, e aspettò. L'ultimo grizzly urtò il filo e si sparò da solo.
Era giugno. La pelle era sporca, macchiata e senza valore. Ci sembrava quasi un insulto negare all'ultimo grizzly la possibilità di lasciare una buona pelliccia a memoriale della sua razza. Tutto ciò che rimase fu un cranio al museo nazionale, e un battibecco tra scienziati circa il nome latino del cranio.
Fu solo dopo che ponderammo questi eventi che iniziammo a chiederci chi avesse scritto le regole del progresso.

Fin dall'inizio, il tempo aveva lavorato alla mole basaltica di Escudilla, consumando, aspettando, e costruendo. Il tempo costruì tre cose sulla vecchia montagna: un aspetto venerabile, una comunità di animali minori e piante, e un grizzly.
Il trapper del governo che abbatté il grizzly sapeva di avere reso Escudilla sicura per le vacche. Non sapeva di avere mozzato la vetta di un edificio costruito fin da quando le stelle del mattino iniziarono a cantare insieme.
Il capoufficio che aveva spedito il cacciatore era un biologo specializzato in evoluzione, ma non sapeva che le vette potevano essere altrettanto importanti delle vacche. Non previde che nel giro di due decenni il territorio delle vacche sarebbe diventato territorio turistico, e come tale aveva bisogno più di orsi che di bistecche di manzo.
I parlamentari che avevano investito denaro pubblico per ripulire le montagne dagli orsi erano figli dei pionieri. Acclamavano le superiori virtù degli uomini di frontiera, ma combattevano con forza e potere per porre fine alla frontiera.
Noi forestali, che accettavamo l'estinzione degli orsi, conoscevamo un rancher locale che, arando, aveva portato in superficie un pugnale cesellato con il nome di uno dei capitani di Coronado. Parlavamo duramente degli spagnoli, che nel loro zelo per l'oro e le conversioni avevano estinto senza motivo gli indiani nativi. Non ci rendevamo conto che pure noi eravamo i capitani di un'invasione troppo sicura di essere nel giusto.
Escudilla appare ancora all'orizzonte, ma quando la vedi non pensi più all'orso.
Ora è solo una montagna.

~ Aldo Leopold
Escudilla, A Sand Country Almanac, 1949

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Escudilla

Life in Arizona was bounded under foot by grama grass, overhead by sky, and on the horizon by Escudilla.
To the north of the mountain you rode on honey-colored plains. Look up anywhere, any time, and you saw Escudilla.
To the east you rode over a confusion of wooded mesas. Each hollow seemed its own small world, soaked in sun, fragrant with juniper, and cozy with the chatter of pinyon jays. But top out on a ridge and you at once became a speck in an immensity. On its edge hung Escudilla.
To the south lay the tangled canyons of Blue River, full of whitetails, wild turkeys, and wilder cattle. When you missed a saucy buck waving his goodbye over the skyline, and looked down your sights to wonder why, you looked at a far blue mountain: Escudilla.
To the west billowed the outliers of the Apache National Forest. We cruised timber there, converting the tall pines, forty by forty, into notebook figures representing hypothetical lumber piles. Panting up a canyon, the cruiser felt a curious incongruity between the remoteness of his notebook symbols and the immediacy of sweaty fingers, locust thorns, deer-fly bites, and scolding squirrels. But on the next ridge a cold wind, roaring across a green sea of pines, blew his doubts away. On the far shore hung Escudilla.
The mountain bounded not only our work and our play, but even our attempts to get a good dinner. On winter evenings we often tried to ambush a mallard on the river flats. The wary flocks circled the rosy west, and the steel-blue north, and then disappeared into the inky black of Escudilla. If they reappeared on set wings, we had a fat drake for the Dutch oven. If they failed to reappear, it was bacon and beans again.
There was, in fact, only one place from which you did not see Escudilla on the skyline: that was the top of Escudilla itself. Up there you could not see the mountain, but you could feel it. The reason was the big bear.
Old Bigfoot was a robber-baron, and Escudilla was his castle. Each spring, when the warm winds had softened the shadows on the snow, the old grizzly crawled out of his hibernation den in the rock slides and, descending the mountain, bashed in the head of a cow. Eating his fill, he climbed back to his crags, and there summered peaceably on marmots, conies, berries, and roots.
I once saw one of his kills. The cow’s skull and neck were pulp, as if she had collided head-on with a fast freight.
No one ever saw the old bear, but in the muddy springs about the base of the cliffs you saw his incredible tracks. Seeing them made the most hard-bitten cowboys aware of bear. Wherever they rode they saw the mountain, and when they saw the mountain they thought of bear. Campfire conversation ran to beef, bailes, and bear. Bigfoot claimed for his own only a cow a year, and a few square miles of useless rocks, but his personality pervaded the country.
Those were the days when progress first came to the cow country. Progress had various emissaries.
One was the first transcontinental automobilist. The cowboys understood this breaker of roads; he talked the same breezy bravado as any breaker of broncos.
They did not understand, but they listened to and looked at, the pretty lady in black velvet who came to enlighten them, in a Boston accent, about woman suffrage.
They marveled, too, at the telephone engineer who strung wires on the junipers and brought instantaneous messages from town. An old man asked whether the wire could bring him a side of bacon.
One spring, progress sent still another emissary, a government trapper, a sort of St. George in overalls, seeking dragons to slay at government expense. Were there, he asked, any destructive animals in need of slaying? Yes, there was the big bear.
The trapper packed his mule and headed for Escudilla.
In a month he was back, his mule staggering under a heavy hide. There was only one barn in town big enough to dry it on. He had tried traps, poison, and all his usual wiles to no avail. Then he had erected a set-gun in a defile through which only the bear could pass, and waited. The last grizzly walked into the string and shot himself.
It was June. The pelt was foul, patchy, and worthless. It seemed to us rather an insult to deny the last grizzly the chance to leave a good pelt as a memorial to his race. All he left was a skull in the National Museum, and a quarrel among scientists over the Latin name of the skull.
It was only after we pondered on these things that we began to wonder who wrote the rules for progress.

Since the beginning, time had gnawed at the basaltic hulk of Escudilla, wasting, waiting and building. Time built three things on the old mountain, a venerable aspect, a community of minor animals and plants, and a grizzly.
The government trapper who took the grizzly knew he had made Escudilla safe for cows. He did not know he had toppled the spire off an edifice a-building since the morning stars sang together.
The bureau chief who sent the trapper was a biologist versed in the architecture of evolution, but he did not know that spires might be as important as cows. He did not foresee that within two decades the cow country would become tourist country, and as such have greater need of bears than of beefsteaks.
The Congressmen who voted money to clear the ranges of bears were the sons of pioneers. The acclaimed the superior virtues of the frontiersman, but they strove with might and main to make an end of the frontier.
We forest officers, who acquiesced in the extinguishment of the bear, knew a local rancher who had plowed up a dagger engraved with the name of one of Coronado’s captains. We spoke harshly of the Spaniards who, in their zeal for gold and converts, had needlessly extinguished the native Indians. It did not occur to us that we, too, were the captains of an invasion too sure of its own righteousness.
Escudilla still hangs on the horizon, but when you see it you no longer think of bear.
It’s only a mountain now.

~ Aldo Leopold
Escudilla, A Sand County Almanac, 1949

27/01/2023

Come scrisse Levi in un racconto di montagna che ha pochi eguali, lassù si poteva ancora godere del privilegio

23/01/2023

Purtroppo una br**ta notizia : l'orso Juan Carrito non c'è più.

Poco fa un investimento fatale lungo la strada SS17 tra Castel di Sangro e Roccaraso.

Lo ricordiamo con questa foto dello scorso anno alla stazione di Roccaraso, che fece il giro del mondo.

Non aggiungiamo altro. 😞

Bollettino METEOMONT
20/01/2023

Bollettino METEOMONT

Pensare come una montagna
03/09/2022

Pensare come una montagna

Un urlo profondo echeggia da roccia a roccia, rotola giù per la montagna e si perde nella lontana oscurità della notte. È un’esplosione selvaggia di sfida, dolore e disprezzo per tutte le avversità del mondo.
Tutte le cose vive e forse anche molte di quelle morte prestano ascolto a questo richiamo. Al cervo ricorda la caducità della carne, per il pino è un annuncio delle zuffe di mezzanotte e del sangue sulla neve, per il coyote la speranza di qualcosa da racimolare, per il v***aro la minaccia di cifre in rosso sul conto in banca, per il cacciatore la sfida di fauci contro una pallottola. Ma dietro queste ovvie immediate speranze e paure si nasconde un significato più profondo, che solo la montagna conosce. Solo essa, infatti, ha vissuto abbastanza per poter ascoltare obiettivamente l’ululato di un lupo.

Anche chi non sa decifrare il significato nascosto tuttavia sa che questo esiste, perché si percepisce in tutti i territori popolati da lupi, distinguendoli da tutti gli altri luoghi. È il brivido che percorre la schiena di chi sente i lupi di notte o ne segue le tracce di giorno. Anche senza vederli o udirli, la loro presenza è implicita in centinaia di piccoli eventi: il nitrito di un cavallo da soma, a mezzanotte il rumore di sassi che rotolano, il balzo di un cervo in fuga, la forma delle ombre sotto gli abeti. Solo qualcuno irrimediabilmente inesperto può non accorgersi della presenza o dell’assenza dei lupi o del fatto che le montagne hanno di loro un’opinione che tengono segreta.

Le mie convinzioni a questo proposito risalgono al giorno in cui vidi un lupo morire. Stavamo mangiando su una sporgenza rocciosa, ai cui piedi un torrente turbolento piegava a gomito. Vedemmo quella che pensavamo fosse una cerva guadare il torrente, immersa fino al torace nell’acqua bianca di spuma. Quando si arrampicò sulla sponda dalla nostra parte e scosse la coda ci accorgemmo del nostro errore: era un lupo. Un’altra mezza dozzina, evidentemente piccoli già cresciuti, balzò dal folto dei salici, radunandosi per dare il benvenuto, scodinzolando e litigando giocosamente. Insomma, un vero e proprio mucchio di lupi si agitava e ruzzolava allo scoperto proprio sotto il nostro masso.

A quei tempi non avevamo mai sentito che qualcuno si lasciasse sfuggire l’occasione di uccidere un lupo. In un attimo stavamo scaricando piombo sul branco, con più eccitazione che precisione: sparare mirando verso qualcosa molto più in basso crea sempre un po’ di confusione. Quando i fucili furono scarichi, il lupo adulto era a terra e un piccolo strascicava una zampa su un impraticabile ghiaione.

Raggiungemmo l’animale agonizzante, che era una lupa, in tempo per vedere un feroce fuoco verde spegnersi nei suoi occhi. Mi resi conto allora, e non l’ho mai dimenticato, che c’era qualcosa di nuovo per me in quegli occhi, qualcosa che solo lei e la montagna sapevano. A quel tempo ero giovane e mi prudeva il dito sul gr*****to: pensavo che meno lupi significasse più cervi, e quindi niente lupi equivalesse al paradiso dei cacciatori. Ma quando vidi spegnersi quel fuoco verde, sentii che né la lupa, né la montagna condividevano quel punto di vista.

Da allora ho vissuto assistendo all’eliminazione dei lupi da parte di uno Stato dopo l’altro. Ho osservato la faccia di molte montagne da poco senza lupi e ho visto i pendii rivolti a sud segnati da un intrico di nuovi sentieri tracciati dai cervi: ho visto ogni cespuglio e pianticella commestibili venir brucati fino alla consunzione e alla morte ho visto che ogni albero commestibile era privo di foglie fino all’altezza del pomo di una sella. A guardare queste montagne sembra che qualcuno abbia regalato a Dio un nuovo paio di cesoie, obbligandolo a passare tutto il suo tempo potando. Così le ossa dei tanto desiderati branchi di cervi, morti perché erano troppi, si sbiancano assieme ai rami secchi della salvia o si sgretolano sotto i ginepri.

Ho l’impressione che come un branco di cervi vive nella paura mortale dei lupi, così la montagna viva nel terrore mortale dei suoi cervi. E forse per più valide ragioni: perché mentre un cervo ucciso dai lupi può essere rimpiazzato in due o tre anni, i danni a un rilievo eroso da troppi cervi forse non saranno riparati nemmeno in altrettanti decenni. Lo stesso accade per le mucche: il v***aro che libera dai lupi il suo territorio non si rende conto di sopprimere il lavoro del lupo, che consiste nel riportare la mandria alle dimensioni adeguate rispetto all’estensione del territorio. Non ha imparato a pensare come una montagna. Per questo motivo ci sono zone divenute così sterili da essere ridotte a deserti, e fiumi che credono tutto, trascinando il futuro verso il mare.

Tutti noi ci sforziamo di ottenere sicurezza, prosperità. comodità, longevità e imperturbabilità. I cervi si sforzano con le loro agili zampe, i v***ari con trappole e veleno, gli uomini di stato con la penna, la maggior parte di noi con macchine, voti e dollari, ma tutti mirano alla stessa cosa: vivere in pace. Raggiungere in certa misura questo scopo è già sufficiente e forse è una condizione per poter pensare in maniera oggettiva, ma una sicurezza eccessiva sembra che, a lungo andare, produca solo pericolo. Forse è proprio questo che significa il detto di Thoreau: “La salvezza del mondo si trova nella natura selvaggia”. Forse questo è il significato nascosto nell’ululato del lupo, che le montagne conoscono da molto tempo, ma che gli uomini raramente percepiscono.

~ Aldo Leopold
Pensare come una montagna,
in Almanacco di un mondo semplice, 1949



A deep chesty bawl echoes from rimrock to rimrock, rolls down the mountain, and fades into the far blackness of the night. It is an outburst of wild defiant sorrow, and of contempt for all the adversities of the world. Every living thing (and perhaps many a dead one as well) pays heed to that call. To the deer it is a reminder of the way of all flesh, to the pine a forecast of midnight scuffles and of blood upon the snow, to the coyote a promise of gleanings to come, to the cowman a threat of red ink at the bank, to the hunter a challenge of fang against bullet. Yet behind these obvious and immediate hopes and fears there lies a deeper meaning, known only to the mountain itself. Only the mountain has lived long enough to listen objectively to the howl of a wolf.

Those unable to decipher the hidden meaning know nevertheless that it is there, for it is felt in all wolf country, and distinguishes that country from all other land. It tingles in the spine of all who hear wolves by night, or who scan their tracks by day. Even without sight or sound of wolf, it is implicit in a hundred small events: the midnight whinny of a pack horse, the rattle of rolling rocks, the bound of a fleeing deer, the way shadows lie under the spruces. Only the ineducable tyro can fail to sense the presence or absence of wolves, or the fact that mountains have a secret opinion about them.

My own conviction on this score dates from the day I saw a wolf die. We were eating lunch on a high rimrock, at the foot of which a turbulent river elbowed its way. We saw what we thought was a doe fording the torrent, her breast awash in white water. When she climbed the bank toward us and shook out her tail, we realized our error: it was a wolf. A half-dozen others, evidently grown pups, sprang from the willows and all joined in a welcoming melee of wagging tails and playful maulings. What was literally a pile of wolves writhed and tumbled in the center of an open flat at the foot of our rimrock.

In those days we had never heard of passing up a chance to kill a wolf. In a second we were pumping lead into the pack, but with more excitement than accuracy: how to aim a steep downhill shot is always confusing. When our rifles were empty, the old wolf was down, and a pup was dragging a leg into impassable slide-rocks.

We reached the old wolf in time to watch a fierce green fire dying in her eyes. I realized then, and have known ever since, that there was something new to me in those eyes - something known only to her and to the mountain. I was young then, and full of trigger-itch; I thought that because fewer wolves meant more deer, that no wolves would mean hunters' paradise. But after seeing the green fire die, I sensed that neither the wolf nor the mountain agreed with such a view.

Since then I have lived to see state after state extirpate its wolves. I have watched the face of many a newly wolfless mountain, and seen the south-facing slopes wrinkle with a maze of new deer trails. I have seen every edible bush and seedling browsed, first to anaemic desuetude, and then to death. I have seen every edible tree defoliated to the height of a saddlehorn. Such a mountain looks as if someone had given God a new pruning shears, and forbidden Him all other exercise. In the end the starved bones of the hoped-for deer herd, dead of its own too-much, bleach with the bones of the dead sage, or molder under the high-lined junipers.

I now suspect that just as a deer herd lives in mortal fear of its wolves, so does a mountain live in mortal fear of its deer. And perhaps with better cause, for while a buck pulled down by wolves can be replaced in two or three years, a range pulled down by too many deer may fail of replacement in as many decades. So also with cows. The cowman who cleans his range of wolves does not realize that he is taking over the wolf's job of trimming the herd to fit the range. He has not learned to think like a mountain. Hence we have dustbowls, and rivers washing the future into the sea.

We all strive for safety, prosperity, comfort, long life, and dullness. The deer strives with his supple legs, the cowman with trap and poison, the statesman with pen, the most of us with machines, votes, and dollars, but it all comes to the same thing: peace in our time. A measure of success in this is all well enough, and perhaps is a requisite to objective thinking, but too much safety seems to yield only danger in the long run. Perhaps this is behind Thoreau's dictum: In wildness is the salvation of the world. Perhaps this is the hidden meaning in the howl of the wolf, long known among mountains, but seldom perceived among men.

~ Aldo Leopold

Thinking Like a Mountain,
in A Sand County Almanac (1949)

(in foto: Dorsale Prena-Infornace, Versante Nord, Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga)

Un vecchio post del 2015, riflessioni oserei dire attuali alla luce degli ultimi eventi riguardanti il Bivacco Pelino. S...
27/08/2022

Un vecchio post del 2015, riflessioni oserei dire attuali alla luce degli ultimi eventi riguardanti il Bivacco Pelino. Sempre più le nostre montagne vengono trattate come non-luoghi urbani, scenari per esibizionisti senza etica né coscienza, sfondi per selfie e comportamenti assolutamente fuori luogo, distanti da una naturale esperienza di frequentazione delle terre alte...

12/08/2022

- Di tutti, ma non per tutti -

Agosto scivola rapido tra le montagne, insieme a migliaia di entusiasti. Per molti rappresenta l’unica finestra per vivere le alte quote in modo continuativo; altri invece lo considerano un mese schizofrenico, capace tuttavia di rimpinguare il portafogli grazie agli introiti derivati dal turismo.

I passi si popolano raccogliendo infinite declinazioni umane. Per accorgersi di questa pluralità è sufficiente osservare gli adesivi che sommergono la segnaletica stradale: si passa dai club alpini a quelli automobilistici/motociclistici; dal sodalizio di escursionisti alla squadra ciclistica amatoriale; dagli amanti della “Van life” ai camperisti.

Mondi diversi, a volte in forte contrasto, si trovano schiacciati negli spazi esigui concessi dalle verticalità alpine. Così l’escursionista, desideroso di allontanarsi dai ruggiti urbani, si trova a fare i conti con le moto che si rincorrono tra i tornanti; il ciclista, desideroso di ripetere le salite più suggestive del Giro d’Italia, deve a suo malgrado zigzagare tra le macchine che avanzano in fila indiana; l’alpinista, probabilmente salito in macchina, guarda con orrore l’ennesima vetta violata da un impianto di risalita; le rare persone che ancora riescono a vivere in montagna senza dipendere dal turismo o ingollano il rospo e attendono la fine del mese, oppure scappano in spiagge ancor più affollate. Chi invece mangia grazie al turismo si prepara a vivere un mese frenetico, nella speranza di riuscire a replicare in modo fedele quell'atmosfera stereotipata di “tradizione alpina” che il turista si aspetta di respirare.

“Le montagne sono di tutti”, diranno in molti, e avrebbero perfettamente ragione se non fosse per il fatto che questa formula viene di frequente utilizzata per giustificare iniziative dannose per l’ambiente e, spesso, di carattere economicamente elitario. Considerati i prezzi, alcune strutture/infrastrutture/iniziative può permettersele soltanto chi naviga in una condizione di benessere. Agli altri, invece, rimangono le briciole di una montagna sacrificata in nome di un fuorviante slancio democratico.

È forse arrivato il momento di rivisitare la formula: “Le montagne non sono di tutti, ma soltanto di chi le rispetta”.
Un principio a cui dovremmo affidarci per diventare turisti più consapevoli; un principio che non dovrebbe rimanere aggrappato alle guglie, ma scendere in una pianura che ha ormai perso la capacità di dialogare con gli ambienti naturali.

di Pietro Lacasella

02/08/2022

Anche quest'anno Fosco Maraini verrà ricordato nel luogo che più amava.

20/07/2022

A team of researchers has been working for the past several years analyzing summit photos from the world’s highest peaks—particularly on Dhaulagiri (8167m), Manaslu (8163m) and Annapurna (8091m). On July 8, one of them, Eberhard Jurgalski, announced in a report on 8000ers.com that they could only find evidence to confirm ascents to the actual apex of all 14 8000-meter peaks by three people: Ed Viesturs (USA), Veikka Gustafsson (Finland) and Nirmal Purja (Nepal/UK). The research continues and decisions remain about how to handle long-established records.

Read the story on Alpinist.com: http://www.alpinist.com/doc/web22c/newswire-8000er-records-challenged-by-photographic-research

Annapurna (8091m). [Photo] Wolfgang Beyer, Wikimedia

20/07/2022

Tra le tante falsità negazioniste circolate in rete negli ultimi tempi, spicca quella secondo la quale poiché Annibale nel 218 avanti Cristo attraversò le Alpi con i suoi elefanti, allora i ghiacciai sarebbero stati più ritirati di oggi e non ci sarebbe nulla di cui preoccuparsi di fronte all'odierna crisi climatica.
Premettendo che:
1) tuttora non è noto attraverso quale colle l'esercito cartaginese varcò le Alpi occidentali (Colle delle Traversette presso il Monviso? Monginevro? Col Clapier tra Savoia e Val Susa, su cui sembra convergere qualche indizio in più? peraltro tutti luoghi mai occupati da ghiacciai dopo la fine dell'ultima glaciazione);
2) non si possono affidare a un (peraltro unico) episodio storico considerazioni paleoclimatiche che devono appoggiarsi invece su robuste analisi geofisiche, secondo le quali il caldo globale attuale ha ormai superato quello dell'Optimum Termico Olocenico di circa 6000 anni fa ed è AI MASSIMI DAL PENULTIMO INTERGLACIALE - l'Eemiano - DI 125.000 ANNI FA... (IPCC, 2021).
Ma se costoro per lo meno analizzassero con cura le fonti storiche - nel caso di Annibale: Tito Livio e Polibio - eviterebbero figuracce, e scoprirebbero che la traversata dei cartaginesi avvenne in autunno, quando "la neve cominciava ad ammassarsi sulle cime" (Polibio, Storie), e che durante la discesa sul lato italiano, oltre alle difficoltà per i versanti dirupati e una frana che ostruiva il passaggio, l'esercito incontrò “neve recentemente caduta su quella vecchia e intatta, e su essa, soffice e non troppo alta, i piedi si posavano con sicurezza, quando essa per il passaggio di tanti uomini e di tanti animali si fu disfatta, il cammino avveniva sul sottostante ghiaccio rimasto scoperto e tra la fluida poltiglia della neve che fondeva” (Tito Livio, Ab urbe condita). Ad interpretare correttamente quanto riportato, la neve fresca doveva dunque nascondere banchi di NEVE RESIDUA, forse accumuli di valanga, che evidentemente erano sopravvissuti a un’estate BREVE E FREDDA. Tanto più che l'ostacolo venne incontrato non all'altezza del colle (circa 2500 m, nell'ipotesi del Col Clapier), ma più in basso e forse in prossimità del limite superiore del bosco dato che si fa riferimento ad “arbusti e radici affioranti” (Tito Livio, Ab urbe condita) a cui i soldati si aggrappavano per procedere in prossimità della frana.
Secondo le ricostruzioni del clima antico con metodi biogeochimici, si era alla fine di un periodo freddo (Göschenen I) di poco precedente la fase romana relativamente mite (ma molto meno di oggi), dunque in un periodo di relativo addolcimento che tuttavia non esclude la possibilità di stagioni temporaneamente più rigide.
Invece oggi, in epoca di galoppante riscaldamento globale antropogenico, a cavallo tra le Alpi Cozie e Graie a inizio autunno non resta quasi mai traccia di neve residua, nemmeno sui versanti ombreggiati, spesso anche ben oltre i 3000 m di quota, come sta avvenendo proprio quest'anno.
Dunque no, nemmeno Annibale vi può aiutare a gettare discredito sulle più autorevoli e recenti acquisizioni della scienza climatologica, anzi.
Alcune settimane fa abbiamo sentito incredibilmente un opinionista italiano insegnare la paleoclimatologia a un valido glaciologo del CNR-Istituto di Scienze Polari impegnato in ricerche all'avanguardia dalle Alpi alla Groenlandia, sostenendo che gli scienziati non avrebbero l'esclusiva di disquisire di temi climatici.
Eh, no, siamo fuori strada... L'esclusiva c'è, eccome! Parlate di ciò che conoscete: se non per onestà, fatelo almeno per amor proprio.
Alla vicenda di Annibale è dedicato un paragrafo nel capitolo 2 del nostro volume "Duemila anni di clima in Val Susa" (di L. Mercalli e D. Cat Berro, 2018, ed. SMS).
L'immagine è la rappresentazione della traversata alpina dei cartaginesi in una figurina della serie Liebig (1939, archivio SMI).

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