06/09/2023
Fin dall'inizio, il tempo aveva lavorato alla mole basaltica di Escudilla, consumando, aspettando, e costruendo. Il tempo costruì tre cose sulla vecchia montagna: un aspetto venerabile, una comunità di animali minori e piante, e un grizzly. Il trapper del governo che abbatté il grizzly sapeva di avere reso Escudilla sicura per le vacche. Non sapeva di avere mozzato la vetta di un edificio costruito fin da quando le stelle del mattino iniziarono a cantare insieme... Parlavamo duramente degli spagnoli, che nel loro zelo per l'oro e le conversioni avevano estinto senza motivo gli indiani nativi. Non ci rendevamo conto che pure noi eravamo i capitani di un'invasione troppo sicura di essere nel giusto.
Escudilla appare ancora all'orizzonte, ma quando la vedi non pensi più all'orso.
Ora è solo una montagna.
Escudilla
La vita in Arizona era delimitata sotto i piedi dall'erba, sopra la testa dal cielo, e all'orizzonte da Escudilla.
A nord della montagna si cavalcava su praterie color miele. Alzavi lo sguardo ovunque, in qualsiasi momento, e vedevi Escudilla.
Ad est cavalcavi sopra una confusione di mesas boscate. Ogni valletta sembrava un piccolo mondo a sé, baciato dal sole, fragrante di ginepro, e confortevole nel chiacchiericcio delle gazze. Ma bastava uscire su una cresta ed improvvisamente diventavi un granello nell'immensità. Ai suoi confini troneggiava Escudilla.
A sud stavano gli intricati canyons del Blue River, pieni di conigli, tacchini selvatici, e bestiame ancora più selvatico. Quando mancavi un cervo succulento che sculettava il suo addio all'orizzonte, e guardavi attreverso il mirino chiedendoti il perché, guardavi verso una lontana montagna azzurra: Escudilla.
Ad ovest si gonfiavano le protuberanze dell'Apache National Forest. Noi misuravamo alberi lì, convertendo gli alti pini, quaranta per quaranta, in figure sul notes rappresentanti ipotetiche cataste di legname. Arrancando lungo un canyon, il misuratore percepiva una curiosa incongruità tra la remotezza dei simboli sul quaderno e l'immediatezza di dita sudate, spine di locuste, morsi di tafani e scoiattoli bisbetici. Ma alla cresta successiva un vento freddo, ruggente attraverso un mare verde di pini, soffiava via i suoi dubbi. Sulla sponda più lontana pendeva Escudilla.
La montagna delimitava non solo il nostro lavoro e il nostro tempo libero, ma perfino i nostri tentativi di ottenere una buona cena. Nelle sere d'inverno spesso tentavamo l'imboscata a qualche anatra sulle spianate dei corsi d'acqua. Gli stormi sospettosi volavano in cerchio sul roseo ovest, sul nord blu acciaio, e poi scomparivano nell'inchiostro nero di Escudilla. Se riapparivano ad ali spiegate, avevamo un grasso volatile in padella. Se non ricomparivamo, andava ancora una volta di fagioli e bacon.
C'era, di fatto, solo un luogo da dove non vedevi Escudilla all'orizzonte: dalla cima di Escudilla stessa. Lassù non potevi vedere la montagna, ma la potevi sentire. La ragione era il grande orso.
Il vecchio Piedone era un barone delle scorrerie, ed Escudilla era il suo castello.
Ogni primavera, quando i venti caldi ammorbidivano le ombre sulla neve, il vecchio grizzly strisciava fuori dalla sua tana di ibernazione sui pendii rocciosi e, scendendo la montagna, dava una mazzata in testa ad una v***a. Si riempiva a sazietà, e poi si arrampicava nuovamente sui suoi picchi, e lì passava pacificamente l'estate cibandosi di marmotte, coni, bacche e radici.
Una volta vidi una delle sue vittime. Il cranio e il collo della v***a erano spappolati, come se la v***a si fosse schiantata di testa contro un treno merci.
Nessuno vide mai il vecchio orso, ma nelle fangose sorgenti alla base delle pareti si notavano le sue incredibili tracce. Vederle metteva sull'attenti anche i cowboy più navigati. In qualsiasi luogo cavalcassero vedevano la montagna, e quando vedevano la montagna pensavano all'orso. Nelle conversazioni davanti al fuoco da campo si parlava di bestiame, di balli, e dell'orso. Piedone reclamava per sé una sola v***a all'anno e poche miglia quadrate di rocce improduttive, ma la sua personalità pervadeva il territorio.
Quelli furono i giorni in cui il progresso cominciò ad arrivare nel territorio delle vacche. Il progresso aveva vari emissari.
Uno fu il primo automobilista transcontinentale. I cowboy capirono questo apripista; parlava la stessa lingua sfrontata e temeraria dei domatori di cavalli selvaggi.
Non capivano invece, ma la ascoltarono e osservarono, una bella signora in velluto nero che venne ad illuminarli di suffragio femminile parlando in accento bostoniano.
Si meravigliarono, pure, dell'ingegnere del telefono che appese cavi sui ginepri e portò messaggi istantanei dalla città. Un vecchio chiese se il filo poteva portargli una fetta di bacon.
Una primavera il progresso spedì un altro emissario, un trappolatore federale, una sorta di San Giorgio in copripantaloni, alla ricerca di draghi da squartare a spese del governo. C'erano, chiese, animali nocivi da abbattere? Sì, c'era il grande orso.
Il trapper caricò il suo mulo e partì per Escudilla.
Dopo un mese era di ritorno, il suo mulo barcollante sotto una pesante pelliccia. C'era un solo piazzale in città abbastanza ampio per mettercela ad asciugare. Il trapper aveva provato trappole, veleno e tutto il suo solito armamentario senza esito. Allora eresse una trappola con il fucile lungo un passaggio in cui solo l'orso poteva passare, e aspettò. L'ultimo grizzly urtò il filo e si sparò da solo.
Era giugno. La pelle era sporca, macchiata e senza valore. Ci sembrava quasi un insulto negare all'ultimo grizzly la possibilità di lasciare una buona pelliccia a memoriale della sua razza. Tutto ciò che rimase fu un cranio al museo nazionale, e un battibecco tra scienziati circa il nome latino del cranio.
Fu solo dopo che ponderammo questi eventi che iniziammo a chiederci chi avesse scritto le regole del progresso.
Fin dall'inizio, il tempo aveva lavorato alla mole basaltica di Escudilla, consumando, aspettando, e costruendo. Il tempo costruì tre cose sulla vecchia montagna: un aspetto venerabile, una comunità di animali minori e piante, e un grizzly.
Il trapper del governo che abbatté il grizzly sapeva di avere reso Escudilla sicura per le vacche. Non sapeva di avere mozzato la vetta di un edificio costruito fin da quando le stelle del mattino iniziarono a cantare insieme.
Il capoufficio che aveva spedito il cacciatore era un biologo specializzato in evoluzione, ma non sapeva che le vette potevano essere altrettanto importanti delle vacche. Non previde che nel giro di due decenni il territorio delle vacche sarebbe diventato territorio turistico, e come tale aveva bisogno più di orsi che di bistecche di manzo.
I parlamentari che avevano investito denaro pubblico per ripulire le montagne dagli orsi erano figli dei pionieri. Acclamavano le superiori virtù degli uomini di frontiera, ma combattevano con forza e potere per porre fine alla frontiera.
Noi forestali, che accettavamo l'estinzione degli orsi, conoscevamo un rancher locale che, arando, aveva portato in superficie un pugnale cesellato con il nome di uno dei capitani di Coronado. Parlavamo duramente degli spagnoli, che nel loro zelo per l'oro e le conversioni avevano estinto senza motivo gli indiani nativi. Non ci rendevamo conto che pure noi eravamo i capitani di un'invasione troppo sicura di essere nel giusto.
Escudilla appare ancora all'orizzonte, ma quando la vedi non pensi più all'orso.
Ora è solo una montagna.
~ Aldo Leopold
Escudilla, A Sand Country Almanac, 1949
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Escudilla
Life in Arizona was bounded under foot by grama grass, overhead by sky, and on the horizon by Escudilla.
To the north of the mountain you rode on honey-colored plains. Look up anywhere, any time, and you saw Escudilla.
To the east you rode over a confusion of wooded mesas. Each hollow seemed its own small world, soaked in sun, fragrant with juniper, and cozy with the chatter of pinyon jays. But top out on a ridge and you at once became a speck in an immensity. On its edge hung Escudilla.
To the south lay the tangled canyons of Blue River, full of whitetails, wild turkeys, and wilder cattle. When you missed a saucy buck waving his goodbye over the skyline, and looked down your sights to wonder why, you looked at a far blue mountain: Escudilla.
To the west billowed the outliers of the Apache National Forest. We cruised timber there, converting the tall pines, forty by forty, into notebook figures representing hypothetical lumber piles. Panting up a canyon, the cruiser felt a curious incongruity between the remoteness of his notebook symbols and the immediacy of sweaty fingers, locust thorns, deer-fly bites, and scolding squirrels. But on the next ridge a cold wind, roaring across a green sea of pines, blew his doubts away. On the far shore hung Escudilla.
The mountain bounded not only our work and our play, but even our attempts to get a good dinner. On winter evenings we often tried to ambush a mallard on the river flats. The wary flocks circled the rosy west, and the steel-blue north, and then disappeared into the inky black of Escudilla. If they reappeared on set wings, we had a fat drake for the Dutch oven. If they failed to reappear, it was bacon and beans again.
There was, in fact, only one place from which you did not see Escudilla on the skyline: that was the top of Escudilla itself. Up there you could not see the mountain, but you could feel it. The reason was the big bear.
Old Bigfoot was a robber-baron, and Escudilla was his castle. Each spring, when the warm winds had softened the shadows on the snow, the old grizzly crawled out of his hibernation den in the rock slides and, descending the mountain, bashed in the head of a cow. Eating his fill, he climbed back to his crags, and there summered peaceably on marmots, conies, berries, and roots.
I once saw one of his kills. The cow’s skull and neck were pulp, as if she had collided head-on with a fast freight.
No one ever saw the old bear, but in the muddy springs about the base of the cliffs you saw his incredible tracks. Seeing them made the most hard-bitten cowboys aware of bear. Wherever they rode they saw the mountain, and when they saw the mountain they thought of bear. Campfire conversation ran to beef, bailes, and bear. Bigfoot claimed for his own only a cow a year, and a few square miles of useless rocks, but his personality pervaded the country.
Those were the days when progress first came to the cow country. Progress had various emissaries.
One was the first transcontinental automobilist. The cowboys understood this breaker of roads; he talked the same breezy bravado as any breaker of broncos.
They did not understand, but they listened to and looked at, the pretty lady in black velvet who came to enlighten them, in a Boston accent, about woman suffrage.
They marveled, too, at the telephone engineer who strung wires on the junipers and brought instantaneous messages from town. An old man asked whether the wire could bring him a side of bacon.
One spring, progress sent still another emissary, a government trapper, a sort of St. George in overalls, seeking dragons to slay at government expense. Were there, he asked, any destructive animals in need of slaying? Yes, there was the big bear.
The trapper packed his mule and headed for Escudilla.
In a month he was back, his mule staggering under a heavy hide. There was only one barn in town big enough to dry it on. He had tried traps, poison, and all his usual wiles to no avail. Then he had erected a set-gun in a defile through which only the bear could pass, and waited. The last grizzly walked into the string and shot himself.
It was June. The pelt was foul, patchy, and worthless. It seemed to us rather an insult to deny the last grizzly the chance to leave a good pelt as a memorial to his race. All he left was a skull in the National Museum, and a quarrel among scientists over the Latin name of the skull.
It was only after we pondered on these things that we began to wonder who wrote the rules for progress.
Since the beginning, time had gnawed at the basaltic hulk of Escudilla, wasting, waiting and building. Time built three things on the old mountain, a venerable aspect, a community of minor animals and plants, and a grizzly.
The government trapper who took the grizzly knew he had made Escudilla safe for cows. He did not know he had toppled the spire off an edifice a-building since the morning stars sang together.
The bureau chief who sent the trapper was a biologist versed in the architecture of evolution, but he did not know that spires might be as important as cows. He did not foresee that within two decades the cow country would become tourist country, and as such have greater need of bears than of beefsteaks.
The Congressmen who voted money to clear the ranges of bears were the sons of pioneers. The acclaimed the superior virtues of the frontiersman, but they strove with might and main to make an end of the frontier.
We forest officers, who acquiesced in the extinguishment of the bear, knew a local rancher who had plowed up a dagger engraved with the name of one of Coronado’s captains. We spoke harshly of the Spaniards who, in their zeal for gold and converts, had needlessly extinguished the native Indians. It did not occur to us that we, too, were the captains of an invasion too sure of its own righteousness.
Escudilla still hangs on the horizon, but when you see it you no longer think of bear.
It’s only a mountain now.
~ Aldo Leopold
Escudilla, A Sand County Almanac, 1949