30/01/2023
Di Luca Rudra Vincenzini
(conduttore del ritiro)
"Esporrò i doveri eterni di un uomo e di una donna che rimangono sulla via del dovere ("dharma") sia nell'unione che nella separazione. Gli uomini devono rendere le loro donne dipendenti giorno e notte, tenerle sotto il proprio controllo (soprattutto) quelle che sono attaccate agli oggetti dei sensi. Il padre le protegge nell'infanzia, il marito nella giovinezza ed i figli nella vecchiaia. Una donna non è adatta all'indipendenza..." etc, etc, etc, Ma**smṛti o Mānava-dharmaśāstra, Leggi di Manu. Mettetevi comodi che ce n'è da dire su quella che fu e che è la relazione tra "dharma" e lingua sanscrita.
La meraviglia del Sanscrito e la sua strumentalizzazione nella cultura religiosa indiana.
Premetto che amo questa lingua e che, dopo aver studiato cinese all'università, ho ripreso nel 2018 il suo studio con i preparatissimi e generosissimi amici Diego Manzi e Iacopo Nuti. Ci vorranno anni per diventare bravo, ma questo non mi spaventa, perché lo studio è la mia vita. Dal 1990 pratico giornalmente la recitazione dei testi sacri (svādhyāya e nāmajāpa) perché è pratica centrale, assieme alla meditazione, del mio lignaggio. Ho premesso tutto ciò perché non voglio dare ad intendere che non credo nel potere logico-vibratorio di tale meraviglioso sistema linguistico. Però, a mio avviso, la strumentalizzazione del suo uso in seno alle pratiche spirituali è tutt'ora in atto.
Mi permetto allora di fare una digressione storica per contestualizzare la quaestio. Esistono 400 caratteri vallindi (ritrovamenti risalenti circa al 2000 a.C., probabilmente prima) che non sono stati ancora tradotti. Per motivi di immediatezza il protoindoeuropeo, importato dai viaggiatori seminomadi provenienti dall'Afganistan, venne utilizzato come lingua per il commercio anche in India, in quanto era conosciuto dagli altri popoli già entrati in contatto, per motivi merceologici, con i nomadi provenienti dagli Urali. Il suo uso condiviso convinse gli abitanti della valle dell'Indo ad utilizzarlo per il commercio, nonostante la società degli Harappan fosse già da secoli avanzata negli scambi via mare con la Mesopotamia (cfr. editto con gli Ittiti 1350 a.C.).
Dicevo che il protoindoeuropeo venne usato per il commercio sino a che si strutturò grammaticalmente prima nel vedico e poi nel sanscrito (regolamentato da Pāṇini nel suo Aṣṭādhyāyī, in una datazione non certa, orientativamente tra l'VIII ed il V secolo a.C., il Sanscrito dunque è una lingua per dotti confezionata appositamente da dei letterati per motivi di metrica).
La complessità della lingua, dunque, lo rendeva inaccessibile, quasi impossibile da imparare per i contadini versati in uno dei vari dialetti dell'India (prākṛta). Ciò ne decretò il passaggio, da lingua del solo commercio, a lingua rituale e di comando. Con essa i sacerdoti (periodo vedico) veicolavano l'ordine cosmico, le grazie dagli Dèi ed asservivano il popolo che, per paura della reazione dei numi, sedava le sue ansie finanziando per committenza l'azione rituale dei brāhmaṇa.
Quando poi con le Upaniṣad si decretò il passaggio dal bahiryāga (sacrificio esteriore) all'antaryāga (sacrificio interiore), il sanscrito venne riconosciuto come il setaccio per l'illuminazione. Come non era possibile, senza il Sanscrito, comunicare con gli Dèi nel periodo vedico, così in seguito non era ritenuto possibile raggiungere mokṣa, se non lo si conosceva. Lo studio del Sanscrito, però, era concesso ai soli uomini appartenenti alla casta sacerdotale (Brāhmaṇa), la quale dall'era del Gange in poi fu a servizio delle varie monarchie che si avvicendarono nei secoli. Al popolo non era permesso il suo studio, perché esso era il linguaggio dei dotti, degli uomini potenti, di coloro che di fatto sottomettevano: donne, poveri ed ignoranti. Era il mezzo linguistico attraverso il quale si manteneva vivo l'asservimento delle classi operaie: "voi non capite, ci pensiamo noi altri".
In seguito, l'approccio esclusivista, sul Sanscrito come lingua madre, fu cavalcato anche dal tantrismo śaiva (mia passione) ma non da quello bauddha e śākta che, invece, utlizzarono, molto più democraticamente, altre lingue come strumenti per il mantrayāna e per la programmazione del corpo yogico (bīja nei gangli sottili). La storia dell’India, soprattutto grazie ai movimenti śākta con a capo la dea Durgā, stanca della strumentalizzazione fatta dal potere centrale sulla lingua di corte, smentì l'assioma sanscrito=liberazione tipica della spiritualità legata alla tradizione, riempiendo la letteratura, soprattutto nel periodo medievale, di illuminati incolti che parlavano solo i dialetti (Mahārāṣṭra, Tamilnāḍu, Beṅgala, Kāśmīr, Nepal, Tibet, etc, etc, etc).
Pur amando visceralmente questa lingua non posso tacere la verità e asserisco che sono sostanzialmente d'accordo con la letteratura prākṛta, ovvero sul fatto che non ci sono limiti linguistici alla fruizione dell'Assoluto. Questo principio di universalità, anche se l'illuminante tantrismo śaiva fu in kāśmīr portato avanti da eruditi, è perfettamente in asse con il non-dualismo assoluto. Ritenere che non possa esserci risveglio senza il sanscrito corrisponde: ad un atto d'ignoranza dell'essere umano verso l'Assoluto, alla proiezione di un limite sulla libertà (svātantrya) della Matrice, nonché al perpetuarsi del "razzismo" che contraddistinse secoli di classismo castale (le verità che toccano i tabù culturali sono sempre scomode ma solo così si vede chi è votato alla libertà e chi si fa operaio del sistema).
La storia dell'umanità, fortunatamente per tutti, è colma di realizzati che non conobbero mai il sanscrito e di grammatici che, pur conoscendolo, si macchiarono di peccati nefasti. Nei racconti dei bhakta medievali si narra delle persecuzioni fatte da paṇḍit e brāhmaṇa nei confronti di santi illetterati; molti eruditi o sedicenti tali rimasero intrappolati nella rete del potere personale. Contro tale strumentalizzazione politico-linguistica si schierarono: il Buddha storico, il quale parlava i dialetti del nord est (Valle del Gange), soprattutto il magādhi, ed i cui insegnamenti furono trascritti in Pāli; i siddha del bacino himālayano; nonché quelli del sud dell'India e gli esponenti della poesia devozionale, principalmente vaiṣṇava, del centro.
Con ciò cosa voglio affermare? Che se un sistema insegna per il bene del prossimo fa del bene, ma questo bene viene meno se quello stesso sistema passa il concetto che "non c'è libertà senza la sua materia", perché se dice questo vuole potere personale, qualsiasi materia "venda", non vuole la libertà dell'altro, vuole potere. Nel caso specifico del Sanscrito, se così non fosse la storia vanterebbe più illuminati tra paṇḍit e brāhmaṇa piuttosto che tra gli esponenti del popolo, invece così non è, anzi, è esattamente il contrario. Ovviamente ciò non giustifica l'ignoranza in nessun campo ed è bene e doveroso studiare, ma la via realizzativa è fatta di contemplazione e meditazione, non di potere e coercizione. Quanto alle Leggi di Manu, in oggetto all'inizio del post, è bene sapere che quell'atmosfera di controllo su donne e popolo era l'alveo nel quale la casta strumentalizzò il sanscrito (stupenda lingua) contro le caste minori. In conclusione il Sanscrito è uno strumento meraviglioso, spesso usato per fini di potere nel passato, e dovrebbe essere studiato da tutti, ma non è la via realizzativa, come non lo è nessuna scienza umana, né nessuna tecnica. Non c'è nulla che possa produrre lo stato naturale (svabhāva), poiché esso è a sostrato di ogni via, ivi compresa la meditazione, che è solo un mezzo di fruizione dello stato naturale. Un proficuo studio a tutti e, soprattutto, do wake up!
sarva maṅgalaṃ
(Foto: Il tempio del fuoco di Arunachaleswarar visto dalla sacra montagna Arunachala, Tiruvannamalai sede del nostro ritiro)