30/12/2020
La statua equestre del Vittoriano
Nel 1878, al coro che in tutto il Paese stava consacrando al mito le gesta del suo primo monarca appena scomparso, si andava ad aggiungere la voce della città Eterna. Qui, infatti, si sarebbe realizzata, per effetto della legge del 16 marzo di quell’anno, “l’erezione in Roma del Monumento Nazionale alla memoria del Re Vittorio Emanuele II, liberatore della Patria e fondatore della sua unità” che, per il suo carattere nazionale, si sarebbe distinto da ogni altro presente sul territorio per mole e magnificenza.
Il mito reale si era imposto nell’immaginario della cittadinanza italiana attraverso un numero consistente di sculture commemorative che grandeggiavano nelle piazze dei maggiori centri del Regno in cui anche le fattezze grassocce di un uomo ormai appesantito, nel fisico come nello spirito, si sublimavano artisticamente in un effetto di maestosa e paterna autorevolezza.
Il ritratto del Re galantuomo assumeva un rilievo fondamentale nel contesto del tempio concepito dal conte Giuseppe Sacconi, vincitore del concorso nazionale nel 1884, con un progetto in stile classicista che si collocava proprio a ridosso del Campidoglio, come a suggellare la continuità del ruolo storico di Roma, dalla fondazione al Regno d’Italia.
In tutti e tre i concorsi dedicati alla struttura generale del monumento e nelle altre proposte di architettura celebrativa che li avevano preceduti, il prototipo di statua equestre era stato preferito al modello di figura stante, in evidente affinità con il Marco Aurelio capitolino che, tra il 1876 e il 1878, Achille Monti aveva avanzato di sostituire con l’effige del sovrano d’Italia.
La Commissione Reale incaricata di determinare gli orientamenti culturali del Monumento, interamente composta da parlamentari e non da esperti, si concentrò maggiormente sul contenuto politico del complesso, caldeggiando una traduzione fedele della fisionomia del sovrano, senza tenere conto di armonizzare le numerose parti che lo componevano: “La rappresentazione del Re, che fu l’uomo più popolare del suo tempo, deve esattamente rispondere all’immagine che ne rimane ancor viva in tutte le menti. Nessuna alterazione sarebbe sofferta. Tutto ciò che potesse alterare, smorzare, sbiadire, quanto vi ebbe di più sporgente e caratteristico nel tratto, nel vestire, nel portamento del Re, sarebbe un’offesa fatta al culto amoroso, che alla generazione di mezzo alla quale visse, professa alla sua memoria; e il rispetto di questo sentimento spinge forzatamente ad una maniera nella quale alla fedele rappresentazione del vero, possono talvolta essere sacrificate le ragioni dell’arte. E veramente in nessuna opera d’arte come nel monumento onorario, ci pare tanta la difficoltà di cogliere il giusto mezzo tra una maniera che rasenta quella, che potrebbe dirsi scultura di genere, e l’alto stile, che si ispira alle tradizioni classiche, e ai grandi modelli, e par solo degno di parlare nel marmo e nel bronzo alle nazioni ed ai secoli.” Tali indicazioni erano successivamente state ribadite da Camillo Boito, relatore della Commissione Reale, al quarto concorso per l’assegnazione del modello della statua equestre bandito dieci anni dopo dall’avvio delle pratiche legali per il Vittoriano “Le difficoltà del tema sono davvero spaventose. La figura del cavaliero da un parte deve rammentare le schiette fattezze, la naturale espressione del Re Galantuomo, del caro Padre della Patria; ma dall’altro canto deve informarsi alla dignità monumentale dell’eroe, al concetto maestoso, un poco forse ampolloso, del Campidoglio. Il cavallo deve essere vero, come l’arte d’oggi richiede, e nello stesso tempo non deve mostrarsi indegna cavalcatura di tanto cavaliero, nè parere spostato lì sulle enormi scalee, innanzi all’immenso portico sereno. Cavallo e cavallero devono apparire animati dalla fervida vita dell’arte, e pure sottomettersi alle ponderate ragioni architettoniche del tutt’insieme ed alle dure condizioni delle visuali prospettiche”.
Le selezioni per l’affidamento dell’incarico della scultura rappresentante il re Vittorio Emanuele II, iniziate nel 1885, dovettero ripetersi per quattro volte prima che la commissione fosse assegnata nel 1889 - con undici voti su sedici - al friulano Enrico Chiaradia, prescelto, in virtù del bozzetto maggiormente rassomigliante al modello, tra il campano Alfonzo Balzico, il milanese Francesco Barzaghi, il marchigiano Nicola Cantalamessa Papotti e il palermitano Benedetto Civiletti.
Chiaradia originario di Caneva, a pochi chilometri da Pordenone, aveva una formazione tecnica: laureatosi in ingegneria all'Università di Padova, dopo aver studiato a Monaco, a Vienna e a Milano, per assecondare la sua passione per la scultura si era infine recato a Roma per ricevere i fondamenti della professione presso la bottega di Giulio Monteverde, affermato esponente della corrente verista. Primo Levi aveva poeticamente ricordato le sue impressioni sul giovane friulano dalle pagine della Tribuna “Appariva come uno dei tronchi verdeggianti delle sue selve, forte, nodoso, frondoso, spirante la sana letizia di una natura fiorente e a tutta prima sembrò non considerare l’arte come un’espressione conforme della stessa fisica vita, non chiedendole e non traendone che la parola della vigoria” .
La scelta del bozzetto del friulano fu estremamente avversata dall’architetto Sacconi, che gli avrebbe preferito quello del corregionale Cantalamessa Papotti. Quest’ultimo avrebbe accolto il lavoro di Chiaradia e l’intonazione realistica del suo destriero con un’ironica quartina « Il Re a cavallo era il gran soggetto / ma il capo d' opra fu aspettato invano. / Nacque solo un cavallo da carretto / per il gran monumento sacconiano ». Chiaradia, dal suo canto, aveva pienamente compreso la grande opportunità che quell’incarico gli avrebbe garantito: da poco passato i trent’anni, aveva speso il periodo della sua formazione rifuggendo “il facile successo delle esposizioni” senza sfruttare l’onda di popolarità che il gusto verista riscontrava in quegli anni. Egli aveva commentato con estrema umiltà il raggiunto successo, dichiarando di non comprendere il motivo di “tante dimostrazioni e tante feste perché un asino ha fatto un cavallo”. Eppure il processo di unificazione culturale dell’Italia si stava avviando proprio tramite quell’immensa montagna di botticino a cui ogni realtà regionale era stata chiamata a contribuire con le sue più valide personalità artistiche, tentando la sfida di costituire un nuovo lessico nazionale concertando a Roma la varietà degli idiomi locali. Durante un banchetto imbandito in onore del vincitore, il deputato Valentino Rizzo aveva “interpretato i sentimenti de’ veneti congratulandosi col Chiaradia e rammentando opportunamente un altro veneto che ha lasciato in Roma tanti capolavori: Canova” confermando come il Vittoriano dovesse tradurre in immagini durature e accessibili le istanze di patriottismo che il mondo politico sollecitava al suo popolo. Il racconto dell’epica risorgimentale si declamava a Roma da un’orchestra di dialetti diversi e il monumento del Re Galantuomo, la cui realizzazione veniva seguita passo passo dalla stampa italiana con dovizia di particolari, notizie e commenti a volte indiscreti, si contendeva ormai solo con la cupola di San Pietro il ruolo di genius loci della città.
tratto da D'Angelo-Montani "Enrico Chiardia, uno scultore friulano nel Cantiere del Vittoriano in "1911. Le Arti in Friuli e in Veneto" a cura di C. Beltrami Treviso 2011.