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Inwining Inwining offre la possibilità attraverso l'escursionismo enogastronomico di vivere un viaggio in Italia in modo alternativo al tourismo classico

Il vino? Si fa grazie alle anatre. Sono loro il segreto di alcune aziende agricoleIl caso più eclatante, e longevo, in S...
23/11/2023

Il vino? Si fa grazie alle anatre. Sono loro il segreto di alcune aziende agricole
Il caso più eclatante, e longevo, in Sud Africa, ma anche in Italia alcune aziende agricole si stanno affidando alle anatre per la pulizia dei propri vigneti. Cosa fanno questi animali tra i filari?

Da anni un grosso produttore di vino in Sud Africa sta affidando la cura delle sue vigne, letteralmente, a un esercito di anatre. È la curiosa trovata della cantina Vergenoegd Löw The Wine Estate, poco fuori Città del Capo, capace di schierare tra i suoi filari più di 1500 animali addetti alla pulizia e alla salvaguardia del terreno. Uno stratagemma di certo peculiare, con un suo perché e una storia secolare alle spalle.
Le anatre, infatti, venivano già utilizzate in Asia per tenere lontani i parassiti ed eventuali agenti infestanti dalle risaie. L’enorme azienda vinicola sudafricana, produttrice di alcune delle migliori etichette del mondo, riesce a ridurre al massimo l’impatto ambientale tra le sue vigne adoperando migliaia di anatre utilizzate come spazzini, addette alla pulizia green e sostenibili libere di razzolare per i terreni vitati senza il pericolo di fuga. Si tratta infatti di una razza inabile al volo, per questo chiamata anatra corritrice, proveniente proprio dall’Asia.
Gli animali, una volta in vigna, mangiano gli afidi (i pidocchi delle piante), le lumache, i piccoli vermi, liberando il terreno da parassiti che potrebbero attaccare le coltivazioni e permettendo, così, di limitare al minimo (o in toto) l’uso di pesticidi o sostanze chimiche. Durante il periodo della vendemmia, poi, alle anatre sono concesse le meritate ferie e vengono allontanate dai campi vitati. Se non altro, perché se rimanessero si mangerebbero l’uva raccolta.
Una soluzione, adottata ormai da parecchi anni dall’azienda sudafricana, ultimamente percorsa anche da qualche agricoltore italiano.
Oche in vigna, i casi italiani
Più di recente anche in Umbria hanno adottato una soluzione sostenibile e alternativa all’utilizzo di pesticidi. Un paio di aziende agricole in provincia di Perugia hanno schierato tra i propri filari un centinaio di anatre, lasciate scorrazzare da aprile a settembre, momento della vendemmia. Oltre a mangiare malerbe e liberare il terreno da eventuali parassiti, gli animali concimano anche i campi con le loro deiezioni. Non solamente anatre, vengono impiegati anche polli e tacchini, per lo più tra i terreni maggiormente aridi degli uliveti.
Ovviamente la gestione degli animali deve essere oculata e attenta. Le anatre non possono essere lasciate incustodite, bisogna fornire loro un riparo adeguato e integrare adeguatamente la loro alimentazione, oltre a proteggerle da eventuali predatori come, per esempio, le volpi o i lupi.

La viticoltura e la vinificazione dello Champagne sono processi complessi e attentamente controllati che richiedono una ...
18/12/2022

La viticoltura e la vinificazione dello Champagne sono processi complessi e attentamente controllati che richiedono una combinazione di tecnologia avanzata e metodi tradizionali.

Innanzitutto, le uve destinate alla produzione dello Champagne vengono attentamente selezionate e raccolte a mano, seguendo le regole del disciplinare di produzione dello Champagne. Le uve vengono poi trasportate alle cantine, dove vengono subito pressate per estrarre il mosto.

Il mosto viene quindi trasferito in grandi recipienti di acciaio dove viene lasciato a fermentare. Durante questo processo, i lieviti presenti nel mosto trasformano lo zucchero in alcol. Una volta che la fermentazione è completa, il vino viene imbottigliato insieme a una quantità controllata di lieviti e zucchero, che darà origine alla famosa bollicina dello Champagne.

Le bottiglie vengono quindi sigillate con un tappo di sughero e collocate in cantine umide e fresche per la seconda fermentazione, chiamata anche "fermentazione in bottiglia". Durante questo processo, i lieviti trasformano nuovamente lo zucchero in alcol e anidride carbonica, che si accumula all'interno della bottiglia sotto forma di bollicine.

Dopo la seconda fermentazione, le bottiglie vengono inclinate a un'angolazione di 45 gradi e ruotate regolarmente per favorire la sedimentazione dei lieviti al fondo della bottiglia. Questo processo, chiamato "remuage", viene effettuato a mano o con l'ausilio di apposite macchine.

Una volta che i lieviti sono sedimentati, le bottiglie vengono aperte e il tappo di sughero viene rimosso. Una piccola quantità di vino viene quindi rimossa insieme ai lieviti sedimentati, e la bottiglia viene ricompressa con un tappo di sughero. A questo punto, lo Champagne è pronto per essere imbottigliato e commercializzato.

Articolo a cura di Marco Giardinelli

Potare la vite, meglio il metodo a guyot o quello a cordone speronato?Marzo 2022Avventurandosi in questi primi mesi dell...
01/03/2022

Potare la vite, meglio il metodo a guyot o quello a cordone speronato?
Marzo 2022
Avventurandosi in questi primi mesi dell’anno, anche solo per una semplice scampagnata, tra le campagne sarà capitato un po’ a tutti di imbattersi nel fervido lavoro della potatura della vite, forse l’attività più impegnativa per il viticoltore.
La potatura della vite, così come per la maggior parte delle piante da frutto, ha l’obiettivo di migliorarne la produzione sia dal punto di vista qualitativo che da quello quantitativo assicurando, nello stesso tempo, alla pianta il corretto equilibrio vegetativo. Nella vite dobbiamo fare attenzione a due differenti aspetti della pianta, comunemente chiamati “capi a legno”, ovvero quelli che indicano i tralci che non producono frutti e “capi a frutto” che, al contrario, sono coloro che producono il grappolo di uva.
La difficoltà è che non esiste una netta distinzione tra le gemme che daranno germogli a frutto e a legno così come non esiste una distinzione tra i due differenti capi. Le condizioni climatiche della stagione primaverile, poi, decide quale sia la maggiore o minore propensione delle diverse gemme, allocate dalla base all’estremità del tralcio, a produrre germogli a frutto ed è qui che influisce l’abilità del potatore, determinante anche sulla longevità della vite stessa.
La potatura della vite ha inizio allorché l’intero vigneto ha perso tutto il fogliame, attività che solitamente si concentra sul finire dell’inverno, nei primi mesi dell’anno. L’intensità dell’intervento del potatore è proporzionale alla vigorosità del vigneto. Perciò si interverrà debolmente limitando il taglio nei casi di un vigneto forte e, al contrario, si interverrà maggiormente nei casi di un vigneto ancora debole.
In entrambi i casi, però, è fondamentale assicurare ai tralci una corretta esposizione, sia per luminosità che per aerazione. Questa operazione deve essere posticipata in quelle zone particolarmente fredde e soggette a gelate e alla potatura invernale si aggiunge una estiva, detta “potatura a verde”, che in presenza di un sistema di allevamento a spalliera è possibile meccanizzare.
Nella potatura vengono eliminati tutti i tralci lasciando solo quello più forte e vigoroso che, opportunamente piegato e legato, viene accorciato in modo da lasciare delle 7 alle 9 gemme in media, in funzione dell’età della pianta. Questo unico tralcio avrà il compito di produrre l’uva per il nuovo raccolto.
Il potatore dovrà, oltre al capo al frutto, lasciare più in basso nel tronco uno sperone con alcune gemme il cui tralcio diventerà il nuovo capo a frutto dell’anno seguente. Questo metodo di potatura si chiama a guyot semplice, mentre se si lasciano due capi a frutto il metodo assume il nome di guyot doppio. In questo caso i due capi possono essere posti in posizioni diametralmente opposte (guyot doppio bilaterale) oppure nella stessa direzione ma ad altezze differenti (guyot doppio sovrapposto).
Differente è il metodo a cordone speronato che prevede legature opportune che fanno sì che si imponga alla vite una crescita orizzontale, parallela al suolo. In questo caso al tralcio vengono lasciati dai 3 ai 5 speroni consecutivi, opportunamente distanziati con mediamente 3 gemme ognuno per garantire che almeno una di esse sopravviva ad eventuali gelate primaverili.
Entrambi i metodi hanno pregi e difetti; il metodo guyot garantisce un più lento invecchiamento della pianta, con maggiore resa ma, al contempo, richiede maggiore cura e manutenzione, in particolare per le legature, mentre col metodo a cordone speronato l’intervento di potatura è molto più semplice.
Oggi, con la tecnologia al nostro servizio, l’utilizzo delle nuove forbici pneumatiche oltre a velocizzare l’operazione della potatura garantiscono un maggior confort operativo agli addetti alla potatura, cosa anche questa da non sottovalutare.

Enzo Crivella: il Cilento nel gelatoDiventare gelatiere non era la sua ambizione. Ma quando è successo, ha sfruttato l'o...
16/01/2022

Enzo Crivella: il Cilento nel gelato

Diventare gelatiere non era la sua ambizione. Ma quando è successo, ha sfruttato l'occasione per celebrare un territorio

Enzo Crivella, classe 1950, è uno dei più ispira
Per molti artigiani del gusto il proprio lavoro è una missione se non una vocazione, qualcosa a cui si sono sentiti chiamati fin da subito. Per Enzo Crivella, gelatiere saprese figlio del primo venditore ambulante di gelato di questo lembo estremo di costa campana, non è stato così.

La strada che aveva scelto per sé era quella dell’arte, e dal Cilento se n’era andato a Napoli a studiare all’Accademia di Belle Arti con il sogno di fare lo scenografo.

La scomparsa del padre e la necessità di badare alla famiglia l’hanno richiamato presto a Sapri ma lui non ha rinunciato del tutto alle sue inclinazioni. Coi baffi fluenti (ora scomparsi) e la folta criniera (ancora intatta, anche se imbiancata) che gli è valsa il soprannome di ’O Lione, s’è ingegnato a mettere la sua creatività al servizio del territorio, impegnandosi in quasi ogni tipo di attività che avesse a che fare con il cibo, la ristorazione e l’ospitalità ma pure il racconto di una terra bellissima e poco conosciuta come il Cilento.

Dalla pizza alle crêpes Suzette, dall’osteria al ristorante gourmet fino al caffè e alla pasticceria d’autore – con la Chocolatera, caffè e salotto sul lungomare, di fronte al nuovo chiosco della Gelateria Crivella – passando per la televisione locale e la militanza in Slow Food, Enzo ha anticipato tempi e tendenze diventando un punto di riferimento del territorio, anche se spesso apprezzato più dai visitatori che dai concittadini.
Il gelato, invece, inizialmente lo aveva lasciato tiepido. «Ho sempre continuato a farlo ma più per dovere che per passione», racconta. «Mi sembrava un prodotto in cui fosse difficile mettere qualcosa di mio. Ma era perché non conoscevo la differenza tra un gelato “normale” e uno di qualità. Quando ho capito che si poteva fare diversamente, ho intuito che proprio il gelato poteva essere il modo più adatto a comunicare qualcosa di me, oltre che del territorio, ed era quello che faceva uscire maggiormente fuori la mia creatività».

Perché per Enzo, fare gelato – e qualsiasi altra cosa da mangiare – è soprattutto questo: espressione creativa, narrazione del territorio, costruzione di nuove memorie recuperando la tradizione ma lavorando sull’innovazione. E un modo per far conoscere il Cilento a quante più persone possibile; che si tratti di colleghi, grandi chef, giornalisti o bambini. «Questo è un territorio di periferia, un po’ ai margini; è ricco di prodotti incredibili che non vengono alla luce perché nessuno ne parla, ed è difficile riuscire a fare rete».
Eccola, allora, la sua missione con il gelato: fare un prodotto innanzitutto buono e sano, usando ingredienti come il Latte Nobile, la frutta fresca, le erbe del Parco Nazionale del Cilento, il cacao d’autore e – se necessario – paste di alta qualità. E metterci dento, sempre, qualcosa di “suo”.

Così, infaticabile, si è inventato le serate con gli chef e la “gelateria più piccola del mondo” portando un mini-banchetto con un solo gusto a Morigerati, piccolo borgo dell’entroterra saprese. E i gusti insoliti, che mettono sul cono o in coppetta i sapori del Cilento: da quello che richiama il gusto della mozzarella nella mortella (profumato con le foglie di mirto) a quelli con i ceci di Cicerale o il Ca****fo Bianco del Tanagro, fino alle contaminazioni gastronomiche come gli spaghetti con il gelato b***o e alici, con la colatura di Cetara.
E pure il gelato al fieno – «Un prodotto con una parte sensoriale mai sfruttata a dovere» e quello con il Fabula, il buonissimo formaggio di bufala a pasta molle di Mimmo La Vecchia, superando i confini provinciali. Provocazioni che fanno parlare – del Cilento, prima ancora che di lui – ma che sono anche buonissime.

Tanto lavoro e tanto impegno, alla lunga, sono stati ricompensati: dopo essere stato premiato per la Gelateria dell'Anno dal sondaggio online del Gastronauta nel 2013, nel 2018 sono arrivati riconoscimenti prestigiosi come il MAM, Premio dell’anno Maestro d’Arti e Mestieri promosso dalla Fondazione Cologni dei Mestieri d’Arte in collaborazione con ALMA, la Scuola Internazionale di Cucina Italiana, e la nomina come Ambasciatore della Dieta Mediterranea nel Mondo.

Crivella Gelati & Dessert
Lungomare Italia, 54
Sapri (Salerno)

turtei cu la cuaLa storia narra che i tortelli con la coda (in dialetto piacentino turtei cu la cua) nacquero a Vigolzon...
18/12/2021

turtei cu la cua
La storia narra che i tortelli con la coda (in dialetto piacentino turtei cu la cua) nacquero a Vigolzone durante una visita del poeta Francesco Petrarca al suo vecchio amico Bernardo Anguissola, signore di quel feudo; si erano conosciuti a Milano quando il poeta era ospite dei Visconti e l’Anguissola capitano comandante delle loro truppe.

Nell’estate 1351 Petrarca era di passaggio a Piacenza e il podestà Maffeo Mandello da Milano lo invitò a tenere una lectio magistralis nel salone di Palazzo Gotico l’11 giugno. Il poeta soggiornò per alcuni giorni in città e, trovandosi nella zona in cui i Visconti avevano mandato l’amico Bernardo, decise di recarsi a Vigolzone per fargli visita. Seppure si vedessero poco, i due avevano molta stima l’uno dell’altro: nel famoso “Codice Virgiliano” conservato e consultabile nella Biblioteca Ambrosiana, il Petrarca definisce Bernardo Anguissola addirittura “Dominus Bernardinus de Anguisolis de Placentia miles egregius et unus de raris et singularis amicis meis”.

Alla notizia dell’arrivo di Petrarca, al castello di Vigolzone ci fu gran fermento: bisognava accoglierlo con uno splendido banchetto. Le cuoche per stupirlo pensarono di preparare un gran piatto: saccottini di pasta sfoglia ripieni di ricotta, erbette e parmigiano. Il maestro di casa Amerigo da Cassano però ebbe da ridire sul loro aspetto un po’ deforme: guardando quella distesa di fagottini chiese alle cuoche di dar loro una forma più elegante e consona a celebrare l’arrivo del grande poeta. Le cuoche si giravano e rigiravano il fagottino tra le mani senza trovare una soluzione, finchè la più anziana di esse iniziò ad accavallare i lembi laterali di pasta verso il centro, alternandoli tra loro per formare una specie di treccia che si concludeva con due code. Quello che ne uscì soddisfò a pieno il Merigo: le cuoche impararono velocemente il procedimento, chiusero tutti i fagottini e, in un batter d’occhio, i turtei cu la cua vennero serviti a tavola.

Il Petrarca rimase estasiato dalla bontà dei tortelli con la coda: si narra che dopo l’assaggio, il poeta volesse trasformare uno dei suoi più celebri sonetti in “Erano i turtei d’oro a l’aura sparsi”… ma non ne avremo mai la conferma.

14/10/2021

Un'imponente "cantina" di 1.500 anni scoperta in Israele

Archeologia
La produzione annuale di questo sito è stimata in due milioni di litri pressati con i piedi.
Grandi torchi, migliaia di frammenti di giare, vasti magazzini per immagazzinare la produzione: le autorità israeliane hanno inaugurato lunedì 11 ottobre il “più grande” sito produttivo di vini di epoca bizantina nel sud di Israele alle porte della Striscia di Gaza.

Come parte degli scavi a Yavne, una città in crescita nel sud di Israele, gli archeologi hanno portato alla luce un grande sito di produzione di vino, risalente a 1.500 anni fa, negli ultimi due anni.

Il sito non aveva l'aria di vigne bucoliche, ma di vera e propria fabbrica di vino, con una produzione annua stimata in due milioni di litri pressati con i piedi.

Pigiatura dell’uva con i piedi

Il team di archeologi guidato dall'Israel Antiquities Authority ha scoperto cinque torchi di circa 225 m2 per l'uva da pressare con i piedi, due grandi tini ottagonali per la raccolta del mosto e forni in ceramica per la cottura dell’uva. Anfore allungate, chiamate "vasi di Gaza" in cui il vino invecchiava.

"Siamo rimasti sorpresi di trovare una fabbrica sofisticata qui per produrre vino in quantità industriale", hanno detto in una dichiarazione congiunta gli archeologi Elie Hadad, Liat Nadav-Ziv e Jon Selingman, che hanno guidato gli scavi.

Presse di 2300 anni

All'epoca, la Striscia di Gaza, territorio palestinese ora sotto il controllo degli islamisti di Hamas, e l'adiacente città di Ashkelon, nel sud di Israele, vicino a Yavne, erano note per la qualità dei loro vini commercializzati nel bacino del Mediterraneo.

Questi scavi hanno anche permesso di dimostrare la presenza in loco di torchi da vino risalenti a 2.300 anni, periodo in cui l'impero persiano achemenide governava gran parte del Medio Oriente, e quindi, secondo gli archeologi, di mostrare un "continuum" nel corso di diversi secoli di un'industria vinicola locale.

Il complesso di Yavne sarà "conservato" e farà parte di un futuro parco archeologico accessibile al pubblico, ha assicurato lunedì l'Israel Antiquities Authority.

Costa dei TrabocchiPer gli enoturisti cinque itinerari nel territorioScoprire il territorio pedalando. L’estate della ri...
13/07/2021

Costa dei Trabocchi
Per gli enoturisti cinque itinerari nel territorio
Scoprire il territorio pedalando. L’estate della ripresa post pandemia viaggia sulle due ruote con "Frentana bike", progetto ideato e promosso dalla Cantina Frentana di Rocca San Giovanni (Ch) che invita alla scoperta di un’area di particolare bellezza artistica e paesaggistica, a pochi passi dalle spiagge e dalla Via Verde della Costa dei Trabocchi; lo stesso territorio su cui lavorano ogni giorno gli oltre 500 soci della cooperativa vinicola che coltivano ettari di vigneti che declinano dalle colline al mare Adriatico.
L'iniziativa nasce in collaborazione con il Gal (Gruppo di azione locale) "Costa dei trabocchi". Una proposta di turismo lento, fatto di racconti, monumenti da visitare, borghi da scoprire, bontà enogastronomiche, paesaggi inediti, sport da praticare.
“Territorio per noi è la parola chiave – spiega il presidente di Cantina Frentana, Carlo Romanelli – un vero e proprio mantra che ha guidato gli oltre sessant’anni di attività della nostra coop. E questa iniziativa serve a far conoscere e a valorizzare il territorio da cui nascono i nostri vini pregiati. Con le loro vigne e i loro uliveti, - aggiunge Romanelli – i nostri viticoltori sono i principali custodi di questo territorio che dobbiamo proteggere affinché rimanga non solo fertile e capace di produrre ottimi vini, ma anche attrattivo, salubre e green”.
Sono cinque gli itinerari proposti, attraverso luoghi suggestivi, pensati per la bicicletta da strada e la mountain bike, ma anche per chi ama camminare o correre all’aperto. Essi vanno dai 5 ai 50 chilometri e toccano i comuni di Rocca San Giovanni, Fossacesia, Santa Maria Imbaro, Mozzagrogna, San Vito Chietino e Torino di Sangro. Valle delle Farfalle ed Eremo dannunziano; Costa del Mulino; Tratturo Magno; Frentania Grand Tour; Rocca e i suoi vigneti: sono questi i tour mappati, anche attraverso un Qr code, che invitano alla scoperta di “fossi” percorsi da torrenti e ricoperti di foresta ricchi di biodiversità e di borghi dalla storia millenaria, ma anche di santuari, abbazie, chiese rupestri che costellano antichi tratturi percorsi da pastori e greggi che dalla montagna abruzzese, si spostavano, in settembre, verso il mare e il Tavoliere delle Puglie. Non mancano le soste per ammirare i trabocchi, l’eremo dannunziano, l’abbazia di San Giovanni in Venere, la riserva naturale Lecceta di Torino Sangro e il Fosso delle Farfalle a Rocca San Giovanni, il santuario di Santa Maria Imbaro, il cimitero di guerra Sangro River a Torino di Sangro ecc....
Cantina Frentana ha attivato una collaborazione con Repower, azienda che opera sul mercato dell’efficienza energetica e della mobilità elettrica, per l’installazione lungo i percorsi di otto Bitta, strumenti di ricarica per le biciclette a pedalata assistita, dislocate in diversi punti di interesse facilmente raggiungibili, alle quali si aggiungeranno presto nuove “isole” per l’assistenza e il ristoro.
Gli itinerari, adatti a tutti, sono corredati anche da informazioni utili su dove mangiare, dove alloggiare, dove ricaricare le proprie e-bike e dove cimentarsi in attività ed esperienze alternative. Tra le proposte anche la visita guidata gratuita a Cantina Frentana, nata 1958, e alla sua Torre Vinaria dalla cui sommità si può osservare, a 25 metri di altezza e a 360 gradi, un incantato angolo d’Abruzzo.
L'iniziativa è stata presentata ieri sera da Maurizio Gily, curatore del progetto che ne ha raccontato la genesi e le peculiarità insieme a Silvino D’Ercole; Davide Morrone, sales energy manager Repower; Gianni Di Rito, sindaco di Rocca San Giovanni che ha sottolineato, anche in rappresentanza degli altri enti locali partner, l’importanza del progetto che mette in rete imprese ed istituzioni e Carlo Ricci, direttore del Gal "Costa dei trabocchi" che ha evidenziato come "Frentana Bike" entri a pieno titolo nella Rete ciclabile Trabocchi, rete di percorsi asfaltati e non asfaltati, che collegano la costa all’entroterra. Conclusione affidate a Marco Pastonesi, editorialista della Gazzetta dello Sport e scrittore che ha definito “la bicicletta è un talismano di felicità”.

Copyright medicea
26/06/2021

Copyright medicea

Caterina de' Medici: la donna che insegnò a cucinare ai francesi
15 mar 2021

Siamo abituati a pensare che la grande gastronomia abbia una fonte d’ispirazione principale, la Francia. La cucina francese, e soprattutto le sue tecniche e i suoi piatti storici, hanno ispirato la rivoluzione dell’alta cucina in tutto il mondo. Ma in realtà fu una donna fiorentina a dar vita alla cultura gastronomica francese così come la conosciamo. Caterina de’ Medici.
La nobildonna fiorentina, che divenne regina di Francia e consorte di Enrico II, introdusse infatti nel suo nuovo Paese alcune usanze culinarie che poi resero celebre la cucina francese nel tempo. Portando alla corte del regno di Francia i suoi fidati cuochi fiorentini.

Chi era Caterina de’ Medici

Caterina Maria Romula de’ Medici nacque a Firenze il 13 aprile 1519. Dall’unione della storica famiglia fiorentina con la principessa francese Maddalena de La Tour d’Auvergne. Sua madre, infatti, aveva sposato Lorenzo de’ Medici duca di Urbino. Dopo le disastrose vicissitudini successive al Sacco di Roma, e all’assedio fiorentino di Carlo V, Papa Clemente VII (cugino di Caterina) cercò di organizzarle un matrimonio vantaggioso.
Alla fine Carlo V propose al Papa di far sposare a Caterina il suo secondogenito: Enrico, duca d’Orléans. Che poi diventerà re di Francia. Donna di estrema cultura (la sua biblioteca personale contava più di 2000 libri) con il tempo e la maturità Caterina imparò tutto sulle dinamiche della corte regale francese. Fino a diventare una delle figure più influenti dal punto di vista culturale. Ed è appunto così che nasce la commistione fra la cucina italiana e la cucina francese.
Insoddisfatta dei cuochi di corte, infatti, Caterina pretese di poter portare a Parigi i fidati cuochi che l’avevano sempre affiancata quando si trovava in Italia.
L’influenza gastronomica di Caterina
Ma veniamo appunto al modo in cui Caterina de’ Medici influenzò la cultura culinaria francese. Innanzitutto ci fu proprio una rivoluzione sistematica. La nobildonna fiorentina portò in dote in Francia l’uso della forchetta, ad esempio. I nobili francesi, infatti, mangiavano ancora con le mani. Dando vita, quindi, non soltanto a innovazioni culinarie, ma anche di bon ton.
Una delle rivoluzioni gastronomiche sistematiche più incisive, invece, fu la differenziazione fra piatti salati e piatti dolci. Non esisteva questa differenza così marcata nella cultura gastronomica francese dell’epoca. Ma la sovrana fiorentina aveva fra i suoi cuochi anche abilissimi pasticceri, che si dedicavano esclusivamente alla creazione di dolci. E alcuni di essi, sono proprio quei dolci che consideriamo “tipici” della Francia.
Un’altra influenza importante, invece, è legata all’utilizzo di certi ingredienti. Soprattutto per quanto riguarda l’utilizzo e la cottura di certe carni (come l’anatra) e di certi ortaggi, come il ca****fo. Caterina de’ Medici adorava i carciofi che presto divennero un ingrediente ambitissimo in tutte le corti nobili francesi.
I piatti importati dai cuochi fiorentini
Vediamo dunque quali sono, infine, le ricette fiorentine che Caterina de’ Medici affermò in Francia. E che divennero la base della rivoluzione gastronomica dell’alta cucina francese. Fino a rendere celebri cuochi come il grande Escoffier.
Partiamo dai piatti salati. I cuochi dei nobili fiorentini, nel corso del tempo, avevano scoperto che miscelando delle uova sbattute con altri ingredienti (principalmente di origine vegetale) e portando l’uovo ad alta temperatura, si poteva ottenere un piatto delizioso. Portarono questa tradizione fiorentina in Francia, e ben presto si diffuse in ogni corte. Con il nome di omelette. Una loro variante arricchita con grassi animali, invece, erano le crepes.
Caterina, poi, adorava le zuppe e le creme di verdura. E pretendeva che i suoi cuochi almeno un paio di volte a settimana ne cucinassero una con le cipolle. Che poi diventerà celebre nel tempo come soupe d’oignons. Fin da piccola, poi, amava uno stufato di carne famoso nella Firenze medicea con il nome di “stiracchio“. L’antenato del boeuf miroton, un piatto che i grandi ristoranti francesi hanno sempre nel menù.
E infine passiamo ai dolci. Vera passione della regina francese. Durante il ricevimento per il matrimonio con Enrico, erano stati serviti dei particolari dolcetti formati da due scaglie di farina di mandorle a cupola, che racchiudevano fra loro una crema addolcita. Piccoli, ma irresistibili. E che poi nel corso del tempo diventarono famosi con il nome di macaron.
I pasticceri fidati della regina, poi, inventarono un tipo di impasto molto particolare. La pasta choux. Che veniva utilizzata per creare piccoli pasticcini ripieni chiamati bignè. Alla fine dei grandi banchetti, poi, il grande gelatiere fiorentino Ruggeri faceva servire un dolce freddo arricchito con acqua zuccherata e spezie o agrumi: il sorbetto.

Il faut sauver la production 2021 des vins de Bourgogne
07/04/2021

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