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RuoteImpavide Viaggi Straordinari con Mezzi Ordinari Il viaggio è, probabilmente, una delle più affascinanti chiavi di lettura delle mie esperienze di vita.

In un Natale ormai lontano di inizio anni ’80, i miei genitori hanno deciso – all’ultimo momento, si capisce – di raggiungere i miei zii di Amsterdam con una vecchia Ford Granada diesel. Probabilmente è stato quel primo viaggio arrangiato ed improvvisato di cui ricordo ogni istante, quel viaggio fatto di vento, neve, buio, lingue sconosciute e posti epici per un bambino di 9 anni, a piantare in pr

ofondità il seme di questa passione smisurata con cui convivo ormai da anni. Non ho mai smesso di viaggiare, per piacere e per lavoro, e tutte le volte che mi è possibile, cerco di raggiungere la mia meta percorrendo ogni palmo della distanza che mi separa, piuttosto che farmi recapitare da un aereo come un pacco postale. E’, allo stesso tempo, sfida, fuga, critica, introspezione, ricerca, confronto, socialità, solitudine, fatica fisica, vento tra i capelli, senso di impotenza e divertimento sfrenato. Da tempo sono convinto che i viaggi straordinari siano quelli che si affrontano con i mezzi della quotidianità, quelli che magari hanno qualche annetto sulle sp***e e con cui di solito si va a lavoro o a fare la spesa. Amo viaggiare quanto amo la musica. Strimpello tre chitarre, per anni ho messo i dischi in feste e clubs, ho Spotify perennemente online, vinili in camera da letto e la musica in sottofondo anche mentre sto scrivendo queste righe. Leggo di tutto, tutte le volte che posso. In questo modo assorbo, come una spugna. Quindi, mescolo con le inquietudini, le sofferenze, le emozioni e gli irrisolti di una vita non proprio lineare, per poi rigurgitare tutto. Così sono nati, quasi per gioco, i diari degli ultimi viaggi che ho fatto, la più recente delle mie tante passioni. Guido una Sporty 883 R del 2007 (rigorosamente fuori legge), una gloriosa Honda XL 600 Paris Dakar dell’ 87, una Vespa 125 Primavera ed un numero imprecisato di auto (vecchie, nuove, noleggiate, prese in prestito o barattate per un libro o un disco). Adoro Goldrake, il Valpolicella, le due di notte, Camden Town, i Gorillaz, Piazza delle Erbe, le luci soffuse, il mio Belstaff, l’electrohouse, il Marchese del Grillo, Thomas Mann, la caffettiera, gli Alvarez, i gialli svedesi, il gelato al pistacchio, le donne sensibili. Non mi rilasso mai.

Ho il piacere di inaugurare questa splendida rassegna di autori! Vi aspetto domani alle 10:15 per parlare di viaggi on t...
01/12/2023

Ho il piacere di inaugurare questa splendida rassegna di autori!
Vi aspetto domani alle 10:15 per parlare di viaggi on the road, di moto e del mio romanzo

12/11/2023
Mercoledì 31 Maggio, nella splendida cornice de La Montecchia Green, presso il Golf della Montecchia a Selvazzano (PD), ...
22/05/2023

Mercoledì 31 Maggio, nella splendida cornice de La Montecchia Green, presso il Golf della Montecchia a Selvazzano (PD), dalle ore 19, io e Michele Orlando vi “condurremo in giro per il mondo”.
Per iscrizioni a questo evento e cena speciali potete andare al link nel primo commento

Le vere passioni, che scaldano il cuore e accorciano le distanze!Avanti sempre così ragazzi, bravi!!!
27/01/2023

Le vere passioni, che scaldano il cuore e accorciano le distanze!
Avanti sempre così ragazzi, bravi!!!

Ci vediamo il 15 dicembre! !
05/12/2022

Ci vediamo il 15 dicembre!
!

Aperitivo a Battalgazi🚀🚀🚀🚀🚀🚀🚀🚀Alboreto is nothing!
03/12/2022

Aperitivo a Battalgazi
🚀🚀🚀🚀🚀🚀🚀🚀
Alboreto is nothing!

Ormai siamo agli ultimi preparativi.Ci vediamo domani al Tennis Club Padova con Viaggi! Il   assieme a Michele OrlandoCo...
02/12/2022

Ormai siamo agli ultimi preparativi.
Ci vediamo domani al Tennis Club Padova con Viaggi! Il assieme a Michele Orlando
Come ho scritto nel mio romanzo,
"Gli itinerari gli si srotolavano davanti, con naturalezza,
mentre la macchinetta scorreva sul planisfero appeso alla
parete ed il sole iniziava a fare capolino dalle finestre semichiuse.
Il grande Nord, le Americhe, la Transafricana,
la Via della Seta.
La Via della Seta era quella che più lo
elettrizzava ed allo stesso tempo lo riappacificava. Il solo
pensiero di intraprendere, un giorno, un viaggio come
quello gli faceva sentire già alle sp***e le inquietudini che
ogni mattina lo assalivano quando si guardava allo specchio
e si chiedeva che senso avesse la sua vita".

Come ai vecchi tempi … 😎😎
28/09/2022

Come ai vecchi tempi … 😎😎

16/09/2022

Abbiamo davvero pensato ad una serata … spettacolare!!!

A breve info e prenotazione su eventbrite!

01/08/2022

2022 Yamaha XT 600
SETTIMA TAPPA: ERZURUM – NINOTSMINDA

Ultimi scampoli di Turchia, altipiano Armeno e poi Georgia.

Quella di oggi è stata, senza dubbi, la tappa più bella ed appassionante, per molti motivi.
Stamattina ero già di buon’ora in sella all’XT con direzione Kars, l’ultima città degna di questo nome a est della Turchia. Dopo duecentocinquanta chilometri dell’ormai classico paesaggio pedemontano turco, lungo una scorrimento veloce dall’asfalto perfetto e sotto un cielo terso e turchese, raggiungo il bivio che attendevo da giorni.
E volto verso sud-est, verso Ani.

Sono letteralmente elettrizzato dall’idea di poter visitare una grande capitale imperiale abbandonata. La sua posizione poco agevole non la rende oggetto di particolari attenzioni turistiche, nonostante i tesori che vi si nascondano. Imbocco così la strada secondaria che porta verso le rovine di Ani, ben quarantadue chilometri di rettilineo in sali e scendi, dove la strada comincia a peggiorare metro dopo metro.
Spariscono le pompe di benzina, e cominciano ad apparire ai lati della strada dei piccoli villaggi sempre più desolati.

Lentamente il cemento ed i mattoni cedono spazio alle baracche di lamiera e latrine comuni. I cavi dell’elettricità si fanno più radi, l’asfalto si fa più rado, l’acqua corrente si fa più rada. Mucche e vitelli al pascolo occupano serenamente la carreggiata, mentre vecchi cani spelacchiati sonnecchiano sul ciglio della strada. Appoggiati su qualche seggiola o seduti su un trattore decrepito, uomini spezzati dalla fatica e logorati dalla vita alzano la mano in segno di saluto, mentre ricambio passando lentamente, cercando i loro sguardi attraverso la visiera ormai ricoperta di moscerini.
Attorno alle baracche, acquitrini e panni stesi.
Vecchie carcasse di auto, copertoni e vari altri relitti.
Rottami arrugginiti ovunque ed un unico edificio abbandonato, forse una vecchia scuola.
I bambini inseguono la moto correndo, urlano e cercano la mia attenzione per farsi fare una foto.
Li guardo, e già mi si comincia a stringere il cuore.

Arrivo finalmente ad Ani, parcheggio per farmi una foto con dietro il cartello ed altri bambini, sporchi e sorridenti, accorrono come fossi un alieno. Gli do le poche lire turche e qualche euro a moneta che mi è rimasto, ma se li litigano tra loro.
Così, per calmarli, me li prendo uno ad uno e li faccio salire in moto. Un bel colpo di acceleratore a testa e una bella foto. Sono euforici, sorridenti, attratti da tutto. Mi chiedono la cartina geografica, mi chiedono persino il portachiavi di fettuccia arancione.
Potrebbero essere loro i miei figli, hanno la stessa età.
“Ma i miei sono nati decisamente più fortunati”, penso consolandomi, mentre mi tolgo il casco e mi dirigo verso l’ingresso del parco archeologico.

Appena entro, Ani mi appare in tutta la sua decadente maestosità. Una grande città murata d’altri tempi, la capitale del regno armeno, che nell’alto medio evo competeva con Bagdad e Costantinopoli per ricchezza, floridità dei commerci, influenza politica e forza militare. Questo, quando il regno armeno era una vera e propria potenza internazionale, che si estendeva da parte dell’attuale Azerbaijan fino a metà circa della Turchia. Sono veramente colpito dai resti delle molte chiese armene, presenti ancora nel sito dietro quel che resta della maestosa cinta muraria esterna. Trascurate, lacerate, ma con colonne e cupole che ancora si ergono fiere, nonostante i corsi ed i ricorsi storici. Mi fermo per qualche minuto a contemplare le croci antiche scolpite nella roccia e finemente lavorate, con iscrizioni antiche in lingua armena e sopra i segni dei molti che sono passati dopo.

Uscendo da una delle chiese, volgo lo sguardo verso l’orizzonte, dove appare ben visibile a poche centinaia di metri, il filo spinato che separa il confine turco da quello armeno. Mia moglie ed i miei figli sono lì, a meno di ottanta chilometri in linea d’aria oltre quel filo invalicabile, ad aspettarmi.
Soffro al pensiero di saperli così vicini, ma di non poterli abbracciare.

Questo, dopo anni di gelo nelle relazioni tra Turchia e Armenia, sembrava finalmente il primo anno in cui sarebbe stato riaperto il varco doganale diretto tra i due stati. Ma le cose vanno ancora per le lunghe e così, dopo aver fatto scappare un altro sospiro, mi dirigo verso la moto per intraprendere il ben più lungo itinerario verso la Georgia, unica via per raggiungere l’Armenia. Poco prima di uscire dal parco, sento prove**re dai pochi tavoli della zona ristoro l’idioma italiano. Mi avvicino e trovo due ragazzi, intenti a parlottare. Mi fermo e scambio due parole, e così scopro che sono partiti in bicicletta da Istanbul, sono stati respinti dall’Iran perché senza visto regolare e hanno quindi ripiegato su Georgia e Armenia. Stanno pedalando da più di due mesi.

Mentre fisso le loro facce, scavate e felici, di quella felicità che a vent’anni ti fa luccicare gli occhi, chiedo che itinerario faranno per la Georgia, dato che da dove ci troviamo nel mio navigatore ci sono altri duecento chilometri. Loro mi guardano pacati, e mi dicono: “guarda che c’è un’altra porta doganale sul lago Khozapini! È principalmente destinata ai camion, ma credo che ti faranno passare anche in moto”.
Figuratevi se, alla notizia, non raccolgo subito la sfida. Sono cento chilometri in meno, che qui si fanno in due ore.

Mi congedo e vado verso il parcheggio, dove a fianco alla moto trovo gli stessi ragazzini di prima. Li guardo e sono esattamente come i miei figli.
Non riesco a reggere la situazione, non riesco ad accettare l’idea che dei bambini siano costretti a vivere in quelle condizioni precarie di sporcizia e di miseria. Così prendo tutte le lire turche che mi sono rimaste e le distribuisco.
Loro sono increduli, urlano di felicità. Io mi sento ancora peggio, al pensiero che forse potrei e dovrei fare ancora di più.
Nel mio romanzo, ho scritto a proposito della felicità: “Poche e semplici sono le cose di cui abbiamo veramente bisogno, e spesso dietro quelle semplici cose si nasconde la vera felicità”.

Ecco perché sto soffrendo così tanto dentro: perché mentre noi stiamo qui tutti ad affannarci per eliminare il superfluo alla ricerca della felicità autentica, ci sono a poche ore di aereo ed in paesi tutto sommato civili, situazioni di precarietà ed abbandono sociale in cui tante creature indifese, che non hanno certo scelto di nascerci in quei luoghi, vivono costrette ad inventarsela con un nulla la felicità, dovendo persino rinunciare a quelle pochissime cose che da sole farebbero l’essenziale per un bambino.

Risalgo in moto con un grande senso di amarezza, mentre questi pensieri girano in loop.
Tutto attorno il paesaggio inizia a tingersi di grigio, mentre inforco la provinciale verso nord che costeggia il lago di Golu, diretto verso la porta doganale della Georgia. Piccole gocce di pioggia cominciano a pungermi sulla giacca, ma quasi non le stento, ancora anestetizzato dalle scene che mi sono appena lasciato alle sp***e.
Pochi minuti dopo la pioggia si esaurisce ed il cielo inizia a tingersi di giallo paglierino e viola, con il sole che filtra tra le nubi scure all’orizzonte, regalando un riflesso verdastro allo specchio del lago che si perde dietro le molte insenature che lo circondano.
Mi sembra di guidare nelle Highlands, nel silenzio più assoluto, solo interrotto dal brusio del motore, mentre tutto, attorno e dentro, si tinge di malinconia.

Dopo un po' di chilometri così, comincia la fila dei camion. Chilometri di autocarri in fila, in attesa delle formalità doganali. Centinaia di camion ed io, unico conducente di un mezzo diverso, che salto la fila a piè pari. Soliti controlli, pago la multa come da copione, e passo dal lato georgiano.
Anche qui, solite battute “Italia, Silvio Berlusconi e Don Vito Corleone”. Un’assonanza che ogni volta mi mette i brividi, se poi penso a cosa arriva di noi alla gente comune che vive dall’altro capo del mondo.

Qualche ulteriore rogna burocratica, perché la targa ha uno zero in meno del libretto (maledetta burocrazia italiana) che poi viene risolta con un rapido controllo del numero di telaio. Trovare il numero di telaio, invece, non è stato banale ed anzi ho dovuto chiamare con la mia SIM turca il mitico Marzio di Alfio Motorshop, che giustamente mi ha detto “hai guardato sul canotto dello sterzo?”.

Alla fine, anche questa è fatta: sono in Georgia!
Mi sparo un’oretta di fila coi camionisti, per comprare la polizza della moto, e finalmente parto alla volta di Ninotsminda, questo villaggetto di qualche centinaio d’anime, il più grande che mi separa dal confine con l’Armenia.
Ci vorranno altre due ore di moto, tra guadi e sterrati, anche dentro minuscoli villaggi.
Poi finalmente arrivo alla mia destinazione.
Dieci case ed un solo hotel, il mio.
Due ristoranti chiusi.
Una tavola calda aperta, praticamente per me.

Entro, mi siedo, affondo un morso alla fetta di Khachapuri e mando giù un sorso di pepsi, sotto le luci fioche dei neon e gli arredi spogli del locale.
Attorno a me solo la proprietaria, che è anche la portinaia dell’hotel, e due camionisti armeni che bevono due cay.
Io, intanto, me ne sto chiuso in silenzio.
E penso solo che domani, finalmente, riabbraccerò mia moglie ed i miei figli.

  2022 Yamaha XT 600SESTA TAPPA: SULUOVA - ERZURUMUn altro bel pezzo di Turchia ce lo siamo sciroppato.La tappa di oggi ...
31/07/2022

2022 Yamaha XT 600
SESTA TAPPA: SULUOVA - ERZURUM

Un altro bel pezzo di Turchia ce lo siamo sciroppato.
La tappa di oggi è stata impegnativa, come ieri.
Ma anche appagante, emozionante, divertente e con qualche colpo di scenda.

Quando stamattina ho finito di legare il bagaglio, ho subito pensato che se anche mi attendevano quasi 600 chilometri di statali e stataline, non potevo perdermi alcune meraviglie che sapevo seminate lungo il mio itinerario.
Così, dopo una velocissima sosta in una p***a di benzina che aveva l’espreso Illy (una rarità qui, che ho gustato fino all’ultima goccia), ho fatto la prima sosta a venti minuti di strada, nella cittadina di Amasya.
Sul cucuzzolo di un monticello alle sp***e del centro abitato sorge, infatti, l’omonimo castello, un edificio risalente ai tempi dell’impero Persiano, più volte rimaneggiato e passato di mano in mano tra Romani, Bizantini e Ottomani per la sua formidabile posizione strategica.

Lo raggiungo attraverso una ripida strada di mattoni, per scattare qualche foto da vicino, e nel parcheggio semideserto scorgo un’enduro 200, attrezzata di tutto punto e con tanto di vello di pecora sulla sella. Molti segni testimoniano che si tratta di una moto in viaggio da giorni, anche se la targa è turca. Mentre mi interrogo, mi raggiunge da dietro e si presenta Giray. Uno studente di economia, del sud della Turchia, che con un inglese perfetto mi racconta che si è preso un paio di mesi sabbatici ed è in giro senza meta da 2 settimane. Campeggia dove trova, decide di giorno in giorno dove andare.
Ci sediamo insieme a bere un caffè e mi racconta che adesso le cose in Turchia non girano benissimo. La loro valuta ha perso molto e così Giray è stato costretto ad abbandonare i suoi propositi originari di visitare l’Iraq e l’Afghanistan in moto, per cui si sta limitando a girare dentro la Turchia. Mi ha confessato che per fare questo viaggio ha dovuto anche vendere alcuni oggetti per fare budget, come la sua GoPro, ma mi ha anche garantito che per nulla avrebbe rinunciato alla sua grande passione dei viaggi in moto. Gli chiedo quanti anni ha e mi risponde 28, meno di metà dei miei.
Ci salutiamo con un abbraccio e risalgo in moto.
Accendo, e mi sento un po’ un mi*****ne. In fondo anche io la passione della moto ce l’ho da sempre, ma le p***e (ed i soldi) per organizzare un viaggio on the road come quello che sta facendo lui me, io le sono fatte ve**re tardi, troppo tardi, ed ora sono qui a recuperare disperatamente gli anni che ho buttato nel cesso a correre dietro i videogiochi, o peggio a non fare una mazza.
Totalmente assorbito e divorato da questi rimorsi, inizio a percorrere in trance la strada che ho davanti, un monotono sali e scendi tra colline brulle e desolate, senza rendermi conto della velocità.
Ho solo un sussulto quando da lontano noto una camionetta bianca, a margine destro della carreggiata e col muso puntato verso di me. Rallento e la sfilo, intercettando lo sguardo dello sbirro dentro, che incrocia il mio con un mezzo ghigno.
Ho già capito tutto, mi hanno beccato.

Infatti, cinquecento metri dopo, dietro una curva, una fila di birilli rossi mi costringe a portarmi verso la destra dove la camionetta con gli altri due sbirri mi attende.
Solito copione, lo stesso di dieci anni fa.
Il più giovane, quello che sa tre parole di inglese, mi fa “You!” e su un foglio scrive “109”. Poi aggiunge “Limit!” e scrive “100”. Per nove chilometri orari, cominciano a farmi un verbale da venti euro che non finisce più. A un certo punto, il vecchio mi fa “Come here! Problem!” e mi porta verso la targa della moto. Mi fa notare che nella targa ci sono 3 zeri prima di “78”, mentre nel libretto ce ne sono 4. Sorrido e gli spiego che sono le vecchie targhe italiane. Lui non sorride e si mette a chiamare non so chi, e sta al telefono un pezzo. Alla fine, completano il verbale e mi mandano via, non dopo avermi raccomandato di pagare la multa a Gumruk.
Risalgo in moto e parto sorridendo, pensando a quanto mi era successo dieci anni fa. “Figurati se vado fino a Gumruk, che non so neanche dov’è, a pagare una multa da venti euro, con tutta la strada che ho davanti…”. Sto persino per buttare via il verbale, quando un qualche santo mi ferma e me lo fa rimettere in tasca.
Molte montagne e molte pompe di benzina dopo, conosco un altro biker turco, Zafer, che è di rientro da un raduno rock. Non parla inglese, e così scambiamo quattro parole usando Translate. Poco prima di salutarlo, mi torna in mente il verbale e gli chiedo se sa dirmi quanto lontano è Gumruk, che al limite lo vado a pagare per evitare storie.
Meno male.
Chiama un suo amico poliziotto e mi spiegano che “Gumruk” è la dogana e che la mia targa è già stata caricata nel loro database. Tradotto, se non porto con me quel verbale in dogana e non lo pago prima di uscire, potrei avere dei problemi ad uscire.
“Adesso ho capito perché lo sbirro prima era così nervoso col problema della targa…!”, penso mentre recupero il verbale, che avevo quasi appallottolato, e lo piego in quattro mettendomelo nel passaporto.
Ringrazio ancora Zafer e riparto, stavolta molto più attento al tachimetro.

Il ritmo più lento che inizio a impormi, comincia a farmi apprezzare sempre di più la Turchia rurale e montuosa che si stende a perdita d’occhio ai lati della mia carreggiata.
Mi sparo così altre tre ore di moto filate, attraversando prima il fianco sud dei Monti Koroglu, dalla caratteristica forma a pandoro con venature ocra e grigie, quindi la prima parte della catena del Ponto, con montagne più austere e rocciose, mentre la strada di tanto in tanto lambisce alcuni laghi naturali di montagna, come il Tercan Baraji con le sue acque cristalline che si perdono dietro piccole insenature sino alla linea dell’orizzonte. Le pendenze si fanno importanti, ogni tanto l’XT soffre ma non demorde mentre soprassa file di autotreni in difficoltà ad arrampicare.
In tre ore arrivo ad Erzican e, come promesso, mando qualche foto ad uno dei ragazzi dell’hotel di Istanbul. I suoi nonni sono di qui, ma lui non c’è mai stato. Anzi, in verità, da quando è nato non si è mai mosso da Istanbul e desiderava poter dare una forma ai tanti racconti dei suoi genitori, di queste terre antiche e lontane.
Mi fermo in piazza e mi siedo nel ristorante più affollato, al solito sono l’unico turista. Un capannello di curiosi guarda le mappe adesive sulla moto e si interroga sul senso di un viaggio simile, mentre io apro il menù in turco senza foto ed ordino a istinto.
Mangerò uno dei kebab allo yogurt più buoni che abbia mai assaggiato, con verdure freschissime e un lavash molto simile a quello che fanno in Armenia.
Pago il conto, circa 4 euro, e sorrido mentre rimetto in moto l’XT.
Il sapore del lavash, ancora in bocca, mi conferma che ormai non manca molto alla mia metà e non saranno certo a preoccuparmi le altre due ore di strada che mi attendono per arrivare ad Erzurum, che raggiungerò mentre le prime luci colorate della sera cominceranno a vestire a festa la bella passeggiata del centro storico, tra l’antico castello, il monastero e la moschea.

  2022 Yamaha XT600QUARTA TAPPA: SALONICCO - ISTANBULGrecia e Turchia.Mentre scrivo queste righe, mi trovo a Istanbul: u...
30/07/2022

2022 Yamaha XT600
QUARTA TAPPA: SALONICCO - ISTANBUL

Grecia e Turchia.

Mentre scrivo queste righe, mi trovo a Istanbul: uno dei luoghi più affascinanti che abbia mai visitato ed in cui torno sempre volentieri.

Ma andiamo con ordine.
Anzitutto, la tratta stradale da Salonicco ad Alexandropolis: oggettivamente, il più brutto itinerario motociclistico che possiate immaginare, ed io purtroppo già lo sapevo.

E’ incredibile quanto poco servito ed unfriendly sia questo lungo e noioso serpentone autostradale di oltre 330 chilometri. Non ci sono bar, non ci sono pompe di benzina, non ci sono alberi ai lati, non c’è ombra, non ci sono neppure piazzole di sosta. Quasi quattro ore di pallosissimo rettilineo in sali e scendi, attraverso un paesaggio semi montuoso ed anonimo, senza centri abitati in vista.
Di tanto in tanto, fa capolino il mare Egeo e quelli sono stati gli unici momenti in cui mi sono fermato sul ciglio (le piazzole, appunto non ci sono) mentre furgoni e camion sfrecciavano all’impazzata, giusto il tempo di scattare qualche foto.

Le pompe di benzina sono fuori dall’autostrada. Quindi ogni volta (due nel mio caso, data la limitata autonomia dell’XT) sono dovuto uscire, ho dovuto pagare il pedaggio, andare in qualche paese sfigato a cinque, dieci chilometri per trovarmi il solito benzinaio st***zo che ti accoglie dicendo “only cash” mentre ancora mi devo togliere il casco. Hanno anche dei frighi della Coca Cola con le bottiglie d’acqua fresca dentro, ma quelle sono solo per loro. Se vuoi bere o andare al bagno devi rimontare in moto e farti altri 10 chilometri per incrociare qualche bar gestito da giovani volenterosi, dove finalmente la cortesia inizia a fare capolino.
Tradotto, ogni pausa benzina si frega quasi quaranta minuti. Il tutto, sotto un caldo infernale in cui il togli e metti giacca e casco diventa quasi una tortura.

Dopo questa fatica erculea ed oltre quattro ore in sella alla Yamaha, finalmente da lontano avvisto la Tracia (la parte continentale della Turchia) e stringo i denti. La riconosco dal vento che soffia sempre perennemente contro, facendo perdere più di venti chilometri orari alla povera XT che arranca e sbuffa. Poco dopo, però, la vista che regala la lunga rampa in discesa che porta verso la dogana, tra golfi e insenature a perdita d’occhio, ripaga la fatica.

La dogana, rispetto agli anni scorsi, è decisamente migliorata.
Salto come da manuale la fila chilometrica di auto e mi metto al quarto posto, davanti a quattro ragazzi albanesi intenti a fumare in una vecchia mercedes nera, che sorridono e mi lasciano il passo. Pochi minuti di attesa, e sono sul lungo ponte che collega le due frontiere. Torrette militari e soldati armati di tutto punto, con postazioni di controllo ogni cento metri, tra barricate di sacchi e fili spinati, fanno sempre una certa impressione e sottolineano la tensione di fondo che dalla notte dei tempi separa questi due territori.

Poi, la dogana turca è un’autentica sorpresa. È stata completamente rifatta a nuovo dal 2013. Uffici nuovi, doganieri giovani e gentili, che sorridono e parlano perfettamente inglese.
Non ho copertura assicurativa e così mi invitano ad acquistarne una al loro ufficio. Sedici euro e il gioco è fatto. Ho anche, come resto, le prime lire turche che userò per comprarmi qualche bibita.
Riparto e stacco la connessione dati, consapevole che fino a Istanbul dovrò utilizzare le mappe in remoto e l’istinto.

Istanbul è ogni anno più impressionante. Avanti anni luce ed estesa a perdita d’occhio, la cintura urbana comincia trentacinque chilometri prima del centro. Dieci anni fa era come la raccontavo nel mio romanzo, un’alternanza di baracche e grandi grattacieli di cristallo che ospitavano le sedi di banche, compagnie assicurative, grandi multinazionali e catene di hotel lussuosi.
Secondo alcune stime, ci vivono più di venti milioni di persone.
Oggi le baracche sono sparite e sono rimasti solo i palazzi di cristallo, attraversati dalla modernissima ed illuminata tangenziale sopraelevata. Ripeto, trentacinque chilometri di palazzi e grattacieli moderni prima di arrivare a Sultanahmet, dove ho prenotato l’hotel.

La guida all’impazzata e la continua intersezione di tangenziali renderebbe impossibile raggiungere la mia meta, in pieno centro storico a cento metri da Santa Sophia, senza l’utilizzo del navigatore.
Arrivo felice e stremato. Scendo, sgancio il bagaglio e controllo meglio la leva della frizione, che dalla mattina continuava a fare un sospetto crick-crack.
Alzo il gommino, guardo meglio e faccio un altro sospiro Zen.
Nella caduta in Bosnia, si è anche rotto il registro della leva della frizione. Spezzato in due. Ho guidato così, in questo equilibrio precario, per quasi 700 chilometri, col rischio di bruciare la frizione.

Ho chiamato un po’ di amici qui ad Istanbul e in poche ore mi hanno trovato un meccanico, ex ufficiale Honda, che si è messo in proprio.
Giusto per spiegare come funziona qui: sono arrivato il giorno dopo, cioè stamatina. Mi ha sistemato il registro in mezzora. Mi ha controllato l’olio. Mi ha ingrassato la catena. Mi ha regalato un registro di riserva, dovesse risuccedere. Mi ha offerto un altro caffè. Mi ha chiesto se volevo un kebab che ho rifiutato perché avevo appena fatto colazione. Non ha voluto soldi. Ho insistito, niente. Siamo rimasti a parlare delle nostre vite, per un’oretta. Poi ci siamo salutati con un abbraccio.

Ho raccontato l’accaduto alla manager del mio hotel, che con un sorriso mi ha risposto: “qui facciamo così, perché crediamo nel karma”.
Ecco, qualora ci fossero ancora dubbi: benvenuti in Oriente!

  2022 Yamaha XT600QUARTA TAPPA: SALONICCO - ISTANBULGrecia e Turchia.Mentre scrivo queste righe, mi trovo a Istanbul: u...
29/07/2022

2022 Yamaha XT600
QUARTA TAPPA: SALONICCO - ISTANBUL

Grecia e Turchia.

Mentre scrivo queste righe, mi trovo a Istanbul: uno dei luoghi più affascinanti che abbia mai visitato ed in cui torno sempre volentieri.

Ma andiamo con ordine.
Anzitutto, la tratta stradale da Salonicco ad Alexandropolis: oggettivamente, il più brutto itinerario motociclistico che possiate immaginare, ed io purtroppo già lo sapevo.

E’ incredibile quanto poco servito ed unfriendly sia questo lungo e noioso serpentone autostradale di oltre 330 chilometri. Non ci sono bar, non ci sono pompe di benzina, non ci sono alberi ai lati, non c’è ombra, non ci sono neppure piazzole di sosta. Quasi quattro ore di pallosissimo rettilineo in sali e scendi, attraverso un paesaggio semi montuoso ed anonimo, senza centri abitati in vista.
Di tanto in tanto, fa capolino il mare Egeo e quelli sono stati gli unici momenti in cui mi sono fermato sul ciglio (le piazzole, appunto non ci sono) mentre furgoni e camion sfrecciavano all’impazzata, giusto il tempo di scattare qualche foto.

Le pompe di benzina sono fuori dall’autostrada. Quindi ogni volta (due nel mio caso, data la limitata autonomia dell’XT) sono dovuto uscire, ho dovuto pagare il pedaggio, andare in qualche paese sfigato a cinque, dieci chilometri per trovarmi il solito benzinaio st***zo che ti accoglie dicendo “only cash” mentre ancora mi devo togliere il casco. Hanno anche dei frighi della Coca Cola con le bottiglie d’acqua fresca dentro, ma quelle sono solo per loro. Se vuoi bere o andare al bagno devi rimontare in moto e farti altri 10 chilometri per incrociare qualche bar gestito da giovani volenterosi, dove finalmente la cortesia inizia a fare capolino.
Tradotto, ogni pausa benzina si frega quasi quaranta minuti. Il tutto, sotto un caldo infernale in cui il togli e metti giacca e casco diventa quasi una tortura.

Dopo questa fatica erculea ed oltre quattro ore in sella alla Yamaha, finalmente da lontano avvisto la Tracia (la parte continentale della Turchia) e stringo i denti. La riconosco dal vento che soffia sempre perennemente contro, facendo perdere più di venti chilometri orari alla povera XT che arranca e sbuffa. Poco dopo, però, la vista che in regala la lunda rampa in discesa che porta verso la dogana, tra golfi e insenature a perdita d’occhio, ripaga la fatica.

La dogana, rispetto agli anni scorsi, è decisamente migliorata.
Salto come da manuale la fila chilometrica di auto e mi metto al quarto posto, davanti a quattro ragazzi albanesi intenti a fumare in una vecchia mercedes nera, che sorridono e mi lasciano il passo. Pochi minuti di attesa, e sono sul lungo ponte che collega le due frontiere. Torrette militari e soldati armati di tutto punto, con postazioni di controllo ogni cento metri, tra barricate di sacchi e fili spinati, fanno sempre una certa impressione e sottolineano la tensione di fondo che dalla notte dei tempi separa questi due territori.

Poi, la dogana turca è un’autentica sorpresa. È stata completamente rifatta a nuovo dal 2013. Uffici nuovi, doganieri giovani e gentili, che sorridono e parlano perfettamente inglese.
Non ho copertura assicurativa e così mi invitano ad acquistarne una al loro ufficio. Sedici euro e il gioco è fatto. Ho anche, come resto, le prime lire turche che userò per comprarmi qualche bibita.
Riparto e stacco la connessione dati, consapevole che fino a Istanbul dovrò utilizzare le mappe in remoto e l’istinto.

Istanbul è ogni anno più impressionante. Avanti anni luce ed estesa a perdita d’occhio, la cintura urbana comincia trentacinque chilometri prima del centro. Dieci anni fa era come la raccontavo nel mio romanzo, un’alternanza di baracche e grandi grattacieli di cristallo che ospitavano le sedi di banche, compagnie assicurative, grandi multinazionali e catene di hotel lussuosi.
Secondo alcune stime, ci vivono più di venti milioni di persone.
Oggi le baracche sono sparite e sono rimasti solo i palazzi di cristallo, attraversati dalla modernissima ed illuminata tangenziale sopraelevata. Ripeto, trentacinque chilometri di palazzi e grattacieli moderni prima di arrivare a Sultanahmet, dove ho prenotato l’hotel.

La guida all’impazzata e la continua intersezione di tangenziali renderebbe impossibile raggiungere la mia meta, in pieno centro storico a cento metri da Santa Sophia, senza l’utilizzo del navigatore.
Arrivo felice e stremato. Scendo, sgancio il bagaglio e controllo meglio la leva della frizione, che dalla mattina continuava a fare un sospetto crick-crack.
Alzo il gommino, guardo meglio e faccio un altro sospiro Zen.
Nella caduta in Bosnia, si è anche rotto il registro della leva della frizione. Spezzato in due. Ho guidato così, in questo equilibrio precario, per quasi 700 chilometri, col rischio di bruciare la frizione.

Ho chiamato un po’ di amici qui ad Istanbul e in poche ore mi hanno trovato un meccanico, ex ufficiale Honda, che si è messo in proprio.
Giusto per spiegare come funziona qui: sono arrivato il giorno dopo, cioè stamatina. Mi ha sistemato il registro in mezzora. Mi ha controllato l’olio. Mi ha ingrassato la catena. Mi ha regalato un registro di riserva, dovesse risuccedere. Mi ha offerto un altro caffè. Mi ha chiesto se volevo un kebab che ho rifiutato perché avevo appena fatto colazione. Non ha voluto soldi. Ho insistito, niente. Siamo rimasti a parlare delle nostre vite, per un’oretta. Poi ci siamo salutati con un abbraccio.

Ho raccontato l’accaduto alla manager del mio hotel, che con un sorriso mi ha risposto: “qui facciamo così, perché crediamo nel karma”.
Ecco, qualora ci fossero ancora dubbi: benvenuti in Oriente!

Caffè freddo ad Alexandropolis … Prima di tentare la titanica impresa dell’attraversamento della dogana turca!
28/07/2022

Caffè freddo ad Alexandropolis …
Prima di tentare la titanica impresa dell’attraversamento della dogana turca!


  2022 Yamaha XT600TERZA TAPPA: PODGORICA - SALONICCOMontenegro, Albania e Grecia.Anzi, l’utile e il dilettevole.Quanto ...
27/07/2022

2022 Yamaha XT600
TERZA TAPPA: PODGORICA - SALONICCO

Montenegro, Albania e Grecia.
Anzi, l’utile e il dilettevole.

Quanto all’utile, mi piacerebbe per una volta lasciare traccia di qualche consiglio pratico, rivolto a chi magari vuole intraprendere questo stesso viaggio o comunque un itinerario verso i Balcani e Oriente.
Giusto poche informazioni, che io stesso ho faticato a trovare in internet o che sono frutto delle mie esperienze.

Eccole, in ordine sparso:
1) carta verde: questa volta sono partito con una di quelle polizze online supereconomiche, con una carta verde che in pratica fuori dall’Europa non copre nulla. Viste le mie esperienze passate temevo il peggio, e invece: in Montenegro, nulla mi hanno chiesto all’ingresso e nulla mi hanno chiesto all’uscita. Pare (così mi diceva la receptionist) che se attraversi il Paese in meno di ventiquattrore non serva neanche la copertura. Anche in Albania, nulla di nulla (a differenza di anni fa), anzi la polizza l’ho comprata io in un chiosco poco dopo la frontiera, più per senso civico che per una reale aspettativa di copertura.
2) Polizia e posti di blocco: in Bosnia quasi assenti. In Montenegro, infarcito ogni venti chilometri di pattuglie con tre o quattro poliziotti che si sbracciano per fermarti: non hanno autovelox, quindi sanzionano sorpassi vietati o andature non consone. A me, data l’andatura del trattore, è andata sempre liscia;
3) Regole pratiche di guida: in Montenegro sono abbastanza disciplinati. In Albania, vale tutto, specie nelle grandi città. Bisogna guidare sempre con cento occhi aperti, anche dietro. Aspettati tutto da tutti. Aspettati che mentre passi, uno da una laterale esce e attraversa in senso verticale la tangenziale. Aspettati qualche capra, asino, cane randagio all’ultimo secondo. Aspettati che uno mette la freccia a sinistra e gira a destra. O proprio non la mette, perché è al cellulare. O si ferma, perché ha cambiato idea, e fa inversione a U senza alcun minimo avvertimento. Aspettati tombini aperti, segnalati (forse) da vecchi copertoni e crateri in mezzo alle superstrade.
4) Pompe di benzina: in Bosnia e Montenegro il giusto, in Albania ovunque, anche nei villaggi più sperduti, come da foto. E’ praticamente impossibile rimanere a secco. Il contrario della Grecia, dove dalla porta doganale la prima p***a di benzina è a 170 chilometri di autostrada, oppure devi uscire dall’autostrada ed andare in qualche cittadina (anche a dieci, quindici chilometri di distanza).
5) Asfalto, passabile in Montenegro, perfetto in autostrada in Grecia. In Albania è migliorato, soprattutto a nord. In Bosnia, non pervenuto.
6) Euro sì, Euro no? Euro sì, sempre ben accetto. Bisogna però insistere sempre, per avere il resto in Euro. In Albania, arrotondano a modo loro.
7) Carte di credito: le nostre italiane (Visa, Mastercard) vanno ovunque col PIN, non con la firma. Se non sai il PIN, usa il tuo bancomat se è nel circuito Maestro. E comunque portati sempre una robusta dose di cash, che non si sa mai, e sparpaglialo con fantasia nei tuo bagagli, per non pentirti poi di aver perso tutto per colpa di qualche dimenticanza.
8 ) Internet e dintorni. In Montenegro e Bosnia c’è in molte pompe, in Albania nei ristoranti. Io, per sicurezza, mi scarico la mappa di google la sera prima e stacco la connessione dati, va che è una meraviglia.
9) Mood della gente. Sono tutti di una disponibilità ed ospitalità sconvolgente. Ti spiegano, a modo loro, ti accompagnano, ti aiutano, si fanno in quattro se hai un problema, quasi come fosse loro. Vedi la storia del cavalletto della tappa prima.
10) Ristoranti lungo la strada: è incredibile quanto siano flessibili come orari. Puoi mangiare alle 9, alle 12, alle 16. Non ci sono pasti scanditi, come in Italia. Lavorano di continuo e si mangia sano quasi ovunque.

Se questo era l’utile, oggi sicuramente il dilettevole è stata l’Albania, che come dieci anni fa (e tre anni fa) ho attraversato per intero, da nord a sud.

L’ho trovata un po’ più moderna ed ingentilita, non imborghesita. Anche se rimangono ancora evidenti le tante contraddizioni di questa terra bella e selvaggia, che ho narrato in un diario di viaggio che ho scritto nel 2013 e che è poi finito, con qualche limatura, nel mio romanzo Tutto il Buono della Solitudine.

Ripropongo quello spezzone, nella convinzione che in fondo offra un ritratto ancora limpido ed attuale della terra delle Aquile.
“Kotor, Durres, Tirana! Albania: come un calcio in pieno viso.
Una terra di grandi contraddizioni, oltre ogni preconcetto e pregiudizio. Di sfarzo ostentato e di miseria miserabile. Di Panamera, Ferrari, Range scuri che sfrecciano contromano e di carretti tirati da bestie, anche umane. Strade allucinanti, piste in terra battuta che si trasformano in scorrimenti superveloci costruiti a ridosso di bazar e baracchette, dove incroci gente che vive di disperazione, vendendo sul ciglio della strada frutta o pesci vivi appena pescati chissà dove, dentro bacinelle di plastica. Uno, per provare vendermi un sacchetto di pesche, stava per farsi ammazzare. Il casco lo porto solo io, ma ancora per poco.
Attraversare le superstrade a piedi, scavalcando le mezzerie in cemento armato sembra di gran moda.
Palazzi e capannoni che sono rimasti scheletri costruiti a metà e ciononostante sono riempiti, occupati e brulicano di gente che vive come i topi. Hummer gialli con cerchi cromati super ribassati, che neanche P. Diddy nel suo massimo splendore. Camerieri riverenti, che corrono senza sosta. Feste di matrimonio nei ristoranti sopra le pompe di benzina, dove tu entri per una birra (come mi è successo mentre scrivo queste righe) e se non ti metti a ballare con loro ti guardano storto digrignando i denti di oro. Qui il ballo ai matrimoni è una cosa seria, tutti dico tutti ballano mentre le pietanze si raffreddano nei piatti...
Carcasse di cani e di gatti per strada, ovunque, mozzati, decomposti. Locali alla moda lungo la spiaggia, ed a ridosso palazzoni fatiscenti e scomposti. Gente cordiale e autisti di bus impazziti. Le frecce ed i cartelli sono solo decorativi. Motorini Honda truccati che fanno 120, guidati da coppie di ragazzini di dieci anni, e crateri al centro delle vie, con resti di copertoni, blocchi di cemento, residui carbonizzati di falò, scheletri cannibalizzati di furgoni, cestelli di lavatrici...
Donne giovani stupende e piene di bambini attaccati alle gonne. Tramonti mozzafiato, effetto macina nel caffellatte. Motocarrozzette degli anni ‘50 sgarrupate e smarmittate (il contrario dell'ape, due ruote davanti e una dietro) con famiglie intere stipate nel cassone. Paesaggi incredibili deturpati da maxitabelloni Vodafone. Prezzi ridicoli e sorrisi gentili. Sguardi fieri e tendine ovunque, al posto delle porte. Vecchie avvolte in abiti pece e vacchette smunte legate con una corda all'ingresso dei negozi. Passeggiate romantiche sul lungomare e sbirri ogni tre per due.
Case scassate. Macchine scassate. Moto scassate. Bici scassate. Strade scassate. Sedie scassate. Cessi scassati. Corpi scassati. Anime scassate. Musica folk-dance cantata in albanese e tanto tanto casino. Sempre. Ovunque.
Ora mi spiego molte cose... Meno male che stasera si farà festa!”

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