25/02/2021
La verità ...
La verità è che l’ambasciatore Attanasio avrebbe potuto tranquillamente portare a casa la pelle. Bastava starsene a Kinshasa, al riparo dell’ambasciata, nella noia rassicurante degli incontri ufficiali, dei cocktail e dei ricevimenti. Se ne sarebbe tornato in Italia, tra qualche anno, per un incarico alla Farnesina, sperso nel tepore di quei marmorei corridoi inseguiti da chilometriche passatoie, rosse in alcuni piani, blu in altri. Poi avrebbe potuto mirare a una missione più sicura, in Europa o in Estremo Oriente, a discuter di diplomazia economica e di internazionalizzazione delle imprese. Aveva tutte le carte in regola: così giovane per essere ambasciatore di rango, così ben voluto per essere un funzionario diplomatico.
Se ne sarebbe tornato a Roma senza aver capito granché del Paese nel quale era stato accreditato, dei mali dell’Africa, delle guerre dimenticate (formula sempre utile a liquidare un argomento del quale non si ha voglia, né tempo di trattare). Del Nord Kivu, dell’Ituri, della penetrazione jihadista nella regione dei Grandi laghi, delle ingerenze dei paesi vicini, Uganda e Ruanda, di quelle delle ex potenze coloniali. Né si sarebbe fatto un’idea precisa di che cosa si muova dietro le giovani generazioni di un continente che nel 2050 sarà il più popoloso del mondo e nel quale si definiranno gli equilibri del mondo che verrà.
E però Attanasio, che di persona non ho purtroppo mai avuto il piacere di conoscere, faceva evidentemente parte di quella categoria di ambasciatori la cui residenza non è fortezza inespugnabile, ma punto di riferimento per una comunità lontana migliaia di chilometri da casa e punto di partenza per allargare gli orizzonti del nostro paese. Uno di quelli che preferiscono avere le scarpe sporche di polvere piuttosto che le carte tutte in ordine. È uno, del resto, che ha scelto di prendere l’incarico in uno dei posti più disastrati del pianeta pur avendo famiglia, una moglie e tre figlie. Ecco, quando sei un ambasciatore di questo genere non sei mai davvero al sicuro. Non in un posto come la Repubblica democratica del Congo.
Attanasio è morto a più di 1.500 chilometri dalla sua ambasciata, in viaggio nelle viscere dell’Africa, andando in visita in una scuola di uno sperduto villaggio ai cui bambini la cooperazione internazionale assicurava pasti giornalieri. È morto di una morte atroce, con due sconosciuti a tenergli le mani negli ultimi istanti. Ma è morto seguendo lo spirito degli uomini coraggiosi, quelli che non furon fatti a viver come bruti, e che ad aiutare gli altri a casa loro ci vanno di persona. Uomini come lui, come il carabiniere Iacovacci e come l’autista Milambo questo paese dovrebbe scolpirseGianmarco Volpea.
Gianmarco Volpe