Colours India Travel

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17/03/2016
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“Ciao, il mio nome è Shan e sono il proprietario dell’agenzia Colours India Travel. Sono nato e vivo nel Tamil Nadu, stato dell’ India del Sud e non vedo l’ora di portarvi a scoprire questa mia stupenda terra. Lavoro nel campo del turismo da 25 anni ed ho una grande squadra di ottimi driver. La magg…

27/02/2016

Reti da pesca cinesi in India

L’attrattiva principale della città di Cochin sono delle insolite reti da pesca di foggia cinese. Le vedete allineate fuori dall’acqua su entrambi i lati del cordone litoraneo che forma la laguna. Vi chiederete come sono arrivate fin qui?
Esse furono introdotto in Kerala da mercanti cinesi della corte di Kublai Khan intorno al 1400. Le acque costiere intorno a Cochin sono molto pescose. Perciò queste grosse reti da pesca servirono ottimamente per oltre un secolo, finché gli arabi scacciarono i cinesi. A questo punto le reti furono tolte di mezzo. Ma all’inizio del XVI secolo i portoghesi spodestarono gli arabi e a quanto pare, furono i portoghesi dell’allora colonia portoghese di Macao, nella Cina sud-orientale, che riportarono queste reti a Cochin.
Anche se il concetto è vecchio di secoli, le reti cinesi funzionano ancora bene quasi senza alcuna modifica al disegno o al meccanismo originale. E continuano a provvedere al sostentamento delle famiglie dei molti pescatori e cibo per parecchia gente. Infatti il pescato di una sola rete può sfamare un intero villaggio. Ma oltre a essere pratiche, le reti sono anche belle, specie quando si stagliano contro il cielo dorato del mattino o al tramonto.
Le gigantesche reti cinesi si servono di un punto d’appoggio e di contrappesi per bilanciare il carico della rete e del pescato. Quando non è in uso, la rete e il telaio di sostegno rimangono sospesi fuori dell’acqua. La pesca inizia la mattina presto e dura quattro o cinque ore. Le reti vengono calate dolcemente nell’acqua. Per far questo i pescatori regolano i pesi attaccati all’estremità opposta del bilanciere e il caposquadra scende camminando sull’asta centrale della rete. La rete rimane sott’acqua da 5 a 20 minuti prima di essere alzata dolcemente, raccogliendo il pesce che nuota vicino a riva. Con anni di esperienza, il caposquadra sa qual è il momento esatto per tirarla su.
Al segnale del capo, il resto della squadra di cinque o sei uomini alza la rete tirando le funi a cui sono legati i massi che servono da contrappeso. Mentre la rete sale, gli angoli emergono per primi. Così la rete assume la forma di una conca con il pesce dentro. Il pesce sarà venduto all’asta a commercianti, massaie e turisti occasionali.
Cinesi, arabi e portoghesi sono venuti e sono andati via, ma le reti cinesi continuano a salire e scendere nella laguna di Cochin, come avveniva più di 600 anni fa.
Fermatevi ad osservare queste operazioni e sicuramente verrete chiamati da qualche pescatore che vi inviterà ad aiutarlo ad alzare la rete. Sarà per voi un’esperienza indimenticabile!!

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24/02/2016

"Ciao, il mio nome è Shan e sono il proprietario dell'agenzia Colours India Travel. Sono nato e vivo nel Tamil Nadu, stato dell' India del Sud e non vedo l'ora di portarvi a scoprire questa mia stupenda terra. Lavoro nel campo del turismo da 25 anni ed ho una grande squadra di ottimi driver. La maggior parte di loro parla inglese, mentre io parlo anche francese e capisco un poco l'italiano"
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23/02/2016

CHAY PIENGHE’?
«Chay pienghé?» ossia “Prendi un tè?” In India i venditori di chay sono a ogni angolo di strada, a tutte le stazioni di autobus, treni e risciò. Alcuni, i più fortunati, hanno un vero e proprio negozietto in muratura o una piccola capanna in legno che li protegge dal maltempo, dove oltre al tè espongono un vasto assortimento di biscotti e snack salati. Poi ci sono i chayvallah ambulanti, i venditori di tè itineranti, che con un carretto di legno trainato a mano, si spostano per il villaggio, vendendo il loro chay. Dal chayvallah, il profumo di tè e spezie si mescola all'odore del cherosene che alimenta la fiamma del fornello, sempre accesa da mattina a sera. Due pentole in alluminio incrostate di foglie di tè e di latte si alternano sulla fiamma, mentre il venditore riempie i bicchierini allineati di fronte a lui, versando abilmente il chay da una certa distanza per raffreddarlo. I clienti rimangono pazientemente in attesa chiacchierando tra loro. Poi, finito di bere, lasciano cadere le poche monete sul bancone. Il prezzo varia dalle dieci rupie nelle costose metropoli, alle due, tre rupie delle cittadine di periferia.
Come il prezzo, anche la ricetta può cambiare, mentre si percorre il paese da nord a sud. In generale il chay si prepara facendo bollire una miscela di latte, acqua e abbondante zucchero, cui si aggiunge una qualità economica e abbastanza forte di tè in polvere. A questa ricetta a volte vengono aggiunte alcune spezie come la radice di zenzero fresco ed i semi di cardamomo. La bevanda più conosciuta è il masala chay arricchito da una miscela, un masala appunto, di varie spezie come la cannella, i chiodi di garofano, il pepe nero, l'anice stellato e poi gli immancabili cardamomo e zenzero. Esistono poi regioni in cui la preparazione del chay è totalmente diversa, un esempio è il noonchay, il tè del Kashmir che ha la peculiarità di non essere zuccherato bensì salato.
Nonostante la sua enorme diffusione, non si hanno notizie certe riguardo l'origine del tè. Alcuni sostengono che il tè venisse già utilizzato come bevanda nell'antichità da alcune popolazioni tribali, mentre è sicuro che fosse conosciuto nella medicina ayurvedica per le sue proprietà curative. Eppure è difficile ricostruire la storia del chay nel periodo che precede la formazione della Compagnia delle Indie quando, sotto l'impulso degli inglesi, si cominciò a coltivare la pianta del tè, prima per l'esportazione in occidente e poi anche per il mercato locale. C'è chi sostiene che furono proprio gli inglesi a introdurre l’abitudine della pausa tè in tutta l'India per ragioni di mercato. È innegabile tuttavia che gli indiani abbiano saputo dar vita a una tradizione e a un modo del tutto particolare di bere il tè, che da semplice gesto quotidiano è diventato un importante momento di aggregazione sociale.

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22/02/2016

Mahabalipuram, la città delle Sette pagode

Quando si parla delle Sette pagode di Mahabalipuram ci si riferisce ad un mito presente in India e parzialmente anche in Europa da parecchi secoli. Sette Pagode è il nome dato dai primi esploratori europei che giunsero alla città indiana di Mahabalipuram per il fatto che in essa, secondo una leggenda diffusa, sorgevano anticamente sette templi simili al Tempio della spiaggia, l’unico sopravvissuto fino ai giorni nostri ed eretto nell’VIII secolo sulle rive
Molti scopritori europei, tra cui anche Marco Polo, fecero alcuni cenni alle sette pagode come resoconto dei loro viaggi verso le colonie indiane. Il merito della diffusione della conoscenza di questo mito in Europa viene riconosciuto principalmente al poeta Robert Southey, che in una delle sue poesie, riferendosi alla città usando per essa il nome di Bali, in onore del suo fondatore, afferma che sono presenti alcune pagode.
Il 26 dicembre del 2004 quando il catastrofico tsunami, che colpì gran parte delle terre che si affacciano sull’oceano Indiano, l’acqua nei pressi di Mahabalipuram si ritrasse di circa 500 metri, con quell’ effetto tristemente famoso che avviene pochi istanti prima che un tale evento si abbatta sulla costa, coloro che erano sulla spiaggia furono testimoni oculari di quanto accadde e notarono per pochi istanti emergere dalle acque agitate una fila molto lunga di rocce enormi insieme ad alcune statue e piccoli edifici che erano stati ricoperti di sabbia per tanti anni. Queste inattese scoperte destarono l'interesse quasi immediato sia degli studiosi che della popolazione locale che cominciarono le ricerche. Il più famoso ritrovamento archeologico dovuto allo tsunami è quello della grande statua di un leone in posizione seduta che, rimasto alla luce a causa del mutato andamento della linea costiera sulla spiaggia di Mahabalipuram, è divenuto una attrattiva per il tutto il turismo locale.
Nell’aprile del 2005 fu composta una squadra di archeologi indiani che, aiutati dai mezzi della marina militare nazionale, iniziarono una ricerca al largo della costa di Mahabalipuram utilizzando metodi sofisticati come la tecnologia del sonar. Grazie a queste ricerche approfondite fecero scoperte molto interessanti. Le pietre che i testimoni oculari dissero di aver visto subito prima del verificarsi dello tsunami appartenevano ad un muro alto circa 200 centimetri e lungo poco meno di un centinaio di metri.
Inoltre furono rinvenuti anche ben due templi sommersi e un terzo tempio scavato della roccia a meno di 500 metri dalla costa. Anche se tutto questo non può confermare in maniera assoluta l’esistenza di sette pagode, consente di affermare con certezza che l’area religiosa di Mahabalipuram era molto più ampia di quanto si ritenesse prima di questi ritrovamenti.
Gli studiosi dissero inoltre che relazionando questi templi sommersi con il Tempio della spiaggia e altre strutture minori si riesce ad ottenere un insieme molto simile a quanto raffigurato nell’unico dipinto di epoca Pallava giunto a noi che rappresenta la disposizione delle Sette Pagode. Inoltre, dopo lo tsunami, è rimasta allo scoperto anche una grande pietra riportante numerose iscrizioni, a testimonianza del fatto che il sovrano Krishna III aveva sborsato una ingente somma di denaro per far mantenere accesa una fiamma in eterno davanti al tempio.
Gli archeologi sempre più incuriositi hanno scavato ancora nelle vicinanze di questa pietra giungendo a scoprire un ulteriore tempio sempre di epoca Pallava insieme a numerose monete e altri oggetti provenienti dalle antiche cerimonie indù. Un altro tsunami, avvenuto nel XIII secolo, può poi essere la causa della distruzione dei templi di epoca Pallava. Prove a sostegno di questo evento catastrofico possono essere trovate lungo l'intera costa orientale dell’India.
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31/01/2016

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28/01/2016

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