26/06/2023
A gentile richiesta la versione integrale del mio racconto
pubblicato nell’antologia “Le Marche, i borghi”.
Per Folignano ho scritto un racconto tra storia e fantasia su Cola dell'Amatrice che per la chiesa di San Gennaro dipinse una tavola meravigliosa.
"Mastro Cola dell’Amatrice e Nardolina di Jacobo"
di Erminia Tosti Luna
Tre uomini, uno a cavallo e due su muli carichi di bisacce, percorrono la strada polverosa per Villa San Gennaro di Folignano, piccolo borgo alle porte di Ascoli, al confine con il Regno di Napoli.
Mastro Cola, il cavaliere, è un pittore di Amatrice, contattato dal plebano della chiesa di San Gennaro, Colandrea de Pallis, per una committenza: dipingere una tavola per l’altare maggiore della chiesa con l’immagine del Santo titolare.
Mastro Cola è contento perché questo lavoro gli permetterà di guadagnare qualche ducato in più. Il danaro non basta mai, anche se lo chiamano da tutta la Marca a realizzare opere d’arte. È l’unico maschio della famiglia dopo la morte del padre e ci sono tre sorelle da maritare, provvedendole della necessaria dote. Ma non è solo questo il motivo per cui gli piace questo borgo. La gente appare rozza, ma nelle poche volte che vi è stato gli è apparsa accogliente ed ospitale, rispettosa e riverente e lui si sente bene in questo paese nascosto tra i monti, dai paesaggi incomparabili.
Correva la primavera del 1512 e la natura iniziava a rinascere. A mano a mano che salivano su per l’erto sentiero polveroso, boschi, uliveti e campi coltivati sapientemente mostravano la loro bellezza, mentre la montagna dei Fiori ancora innevata si stagliava superba alla loro destra. Ogni tanto i tre incontravano dei pastori con piccole greggi e sostavano presso una delle sorgenti lungo la strada che invitavano ad una sorsata d’acqua fresca. Si fermavano a scambiare una parola con qualche contadino all’opera nei campi che, riconoscendo nel cavaliere un signore di città, si scappellavano meravigliandosi. Cosa ci faceva un signore come lui in un paese come Villa San Gennaro, dove un forestiero era raro incontrarlo?
A dire il vero, di forestieri se ne vedevano durante la fiera del patrono a settembre, soprattutto provenienti dal vicino Regno con i quali i rapporti erano buoni. Talvolta passavano dei venditori di cianfrusaglie, qualche poveretto in cerca di elemosine o eremiti scesi dalla montagna dei Fiori. Una volta era giunto in paese addirittura un maestro vagante, di quelli che si impegnavano ad insegnare a leggere e a scrivere in cambio di vitto, alloggio e qualche soldo.
E poi qualche anno prima erano arrivati i francesi invasori che avevano messo a ferro e fuoco tutti i borghi del circondario, arrecando danni anche alla parrocchiale di San Gennaro. Per questo il plebano e i sindaci della comunità avevano pensato di mettere a nuovo l’edificio e di adornarlo con un dipinto. Rivolgersi a mastro Cola, che in Ascoli lavorava alacremente ed era l’artista più in voga del momento, era stato spontaneo. San Gennaro avrebbe avuto la sua bella opera d’arte, come le più importanti città, i paesani ne sarebbero stati orgogliosi e i forestieri l’avrebbero ammirata.
Il denaro non mancava perché i fedeli proprietari delle terre circostanti lasciavano scudi e ducati sonanti alla parrocchia e i magistri de preta, gli abilissimi scalpellini lombardi, potevano essere pagati anche in natura con cereali, vino, polli.
Per il completamento dei lavori nella chiesa occorreva un bel quadro ed allora…
Cola andava a Folignano per mostrare la bozza del disegno ai committenti e incontrare Vannuccio, il falegname della vicina Lisciano che aveva fatto da intermediario con don Colandrea. Cola lo conosceva perché si era servito di lui altre volte per la preparazione delle tavole da dipingere e lo riteneva un abile artigiano. Per questo intendeva rivolgersi a lui anche per l’opera di San Gennaro. Gli occorrevano tre tavole che magistro Francisco Albanensi avrebbe incollato e fermato con chiodi di sicurezza.
Ed ora stava per presentare la composizione al plebano e ai sindaci della comunità. Saliva in paese accompagnato dall’aiutante Guidotto e dal famulo Marinuccio. Era soddisfatto del progetto che aveva concepito, non avrebbe posto al centro il Santo titolare, ma la Madonna col Bambino in grembo e ai lati San Gennaro, San Pietro e San Francesco, usando colori a tempera.
Aveva due soli timori: l’approvazione dei committenti e trovare un volto per la giovane Madonna che intendeva dipingere.
Il plebano e i sindaci erano rimasti sorpresi della composizione, avrebbero preferito san Gennaro al centro, ma, dopo i ma e i se, i loro tentativi di modificare l’opera erano rimasti inascoltati. Il Maestro era irremovibile ed aveva anche manifestato l’intenzione di rinunciare al lavoro, pertanto, dopo un breve conciliabolo, avevano deciso di accettare obtorto collo la scelta di Cola, ma avevano chiesto al pittore una mezz’ora di tempo, invitandolo a farsi un giro per il borgo in attesa della loro decisione definitiva.
Cola uscì dalla canonica e si avviò verso l’osteria sulla piazzetta del paese, dove lo attendevano Guidotto e Marinuccio. Avrebbe bevuto un bicchiere di vino per accompagnare il pane imbottito che si era portato da casa.
Il locale era buio e piccolo, impregnato dell’odore forte del vino, gli avventori erano pochi perché era l’ora del pranzo, ma in un angolo due giovani stavano giocando a dadi. Il gioco era proibito dagli Statuti della città di Ascoli e le ammende nei confronti dei trasgressori erano salate, e colpivano anche gli spettatori, non solo i giocatori. Era permesso solo se la posta era il vino e non il denaro, ma i tavernieri spesso non rispettavano la legge, anche perché i controlli a Villa San Gennaro erano rarissimi.
Cola e i suoi lavoranti si sedettero, in attesa di ordinare un boccale di vino rosso. Iniziarono a mangiare il pane col tocco di formaggio e, con non poca meraviglia, videro uscire da una porta sul retro del locale una fanciulla che si dirigeva verso di loro.
Una meretrice, fu subito il loro pensiero, pronta a soddisfare le voglie dei forestieri, come accadeva spesso nella Marca e un po’ ovunque. Ma il Maestro era dubbioso, conosceva bene il mondo attraverso i suoi viaggi e la giovane aveva un volto dai tratti troppo delicati, non volgari, e il suo sguardo era quello di un’innocente. Aveva avuto come modelle delle meretrici e le riconosceva in un batter d’occhio. La giovane non lo era. Infatti Nardolina, così si chiamava la fanciulla, era la figlia dell’oste e, rimasta orfana della mamma, quel giorno aveva lasciato la raccolta del guado e aveva dato una mano nella gestione della locanda al padre malato.
Aveva i capelli raccolti, celati da un fazzolettone a quadri, ma Cola notò immediatamente la bellezza dei tratti del suo viso.
Tra le grida dei giocatori che imprecavano, i tre consumarono il loro pasto, quindi pagarono alcuni bolognini per la consumazione e, a lenti passi, si avviarono verso la canonica, godendo del tepore primaverile e del paesaggio incantevole attorno al paese. La montagna dei Fiori svettava imponente, mostrandosi ancora innevata sulla sommità, il torrente Marino scorreva lungo la valle sottostante dove era sito Castel Folignano, l’ultima roccaforte del Papa al confine con il Regno di Napoli. Un gregge, che percorreva la strada verso il colle Giammatura dove aveva fatto la sua comparsa l’erba fresca e tenera, li costrinse a fermarsi. Che pace a due passi dalla rumorosa Ascoli!
L’incontro con il plebano e i sindaci ebbe i frutti sperati. Avevano fiducia in lui e soprattutto erano consci che non potevano lasciare un’occasione come quella, possedere l’opera di un artista come Cola, famoso, richiestissimo, ben retribuito e adorato dagli ascolani. Un vero onore poter avere un suo dipinto in un borgo come il loro, pressoché sconosciuto e tagliato fuori dalle principali vie di comunicazione.
Stabilito il compenso in sonanti ducati d’oro del valore di Marca, Cola e i suoi aiutanti scesero in città, contenti del contratto e del lavoro che si apprestavano a realizzare.
Il primo problema era stato risolto, ma il secondo si preannunciava più difficoltoso, anche se il volto di Nardolina appariva e scompariva nella mente del pittore.
Dopo qualche settimana di intenso lavoro, come era il suo solito, Cola tornò a Folignano, per proporre all’attenzione del plebano le tavole laterali, dove aveva raffigurato i Santi Pietro e Gennaro in sontuose vesti liturgiche:
San Pietro era dipinto anziano, dalla folta barba bianca, secondo la tradizionale iconografia descritta da Eusebio di Cesarea, con una croce astile in mano mentre riceve dal Bambino le simboliche chiavi d’oro e d’argento che, secondo la Traditio Clavum, rappresentano il potere spirituale e quello temporale. Indossa abiti pontificali e sul capo ha il triregno ornato da gemme e perle, con la cuspide a ghianda, a simboleggiare il Papa Giulio II della Rovere.
San Gennaro era ritratto in abiti vescovili, di aspetto giovanile, con una mitria sul capo, anch’essa terminante a forma di ghianda, nella mano destra la Bibbia aperta, nella sinistra l’ampolla contenente il proprio sangue. A completamento della figura, un pastorale aureo terminante con una melagrana, simbolo del martirio dei Santi e della resurrezione di Cristo.
La parte centrale dell’opera era rimasta bianca, appena abbozzata la composizione che intendeva dipingere: Maria con il Bambino in grembo e San Francesco inginocchiato. Il Maestro cercava un volto della Vergine particolare che non riusciva a trovare, ma bastò un’altra visita all’osteria per togliere ogni dubbio. Rivide la bella fanciulla e gli fu tutto chiaro. Nardolina aveva il viso che cercava, doveva soltanto vederla con i capelli sciolti per essere sicuro. Come avrebbe potuto convincerla a posare per lui?
Altre volte aveva usato la sua fantasia nel rappresentare volti femminili, non era facile trovare donne disponibili a posare per un artista, e negli ultimi tempi si era rivolto a delle pr******te che si trovavano in abbondanza ad Ascoli. Molte erano delle immigrate giunte dalle terre al di là dell’Adriatico al seguito di Dalmati, Schiavoni, Albanesi per sfuggire ai Turchi che imperversavano nell’Europa orientale. Le si riconosceva dai loro costumi tradizionali dai colori sgargianti e dai cappelli di piume, chiamati comunemente dal volgo “bisetra cm pennis et pennacchio”. Era il segno distintivo riservato alle meretrici che venivano tollerate, purché si tenessero lontane dal Palazzo del Comune, dai conventi e dalle chiese, pena la fustigazione pubblica.
Esse non avevano remore e per denaro erano pronte a posare senza vergogna. Spesso diventavano amanti dei pittori e Cola lo sapeva bene, non si contavano le donne che aveva avuto come modelle e con le quali aveva avuto brevi relazioni appassionate, Ginevra, Fiammetta, Lucrezia, Agnese, Fiorenza, Agnella, Bartolomea, Lisabetta, Martinella… Erano loro a bussare alla porta della sua bottega nel quartiere di santa Maria Intervineas dove il Maestro accoglieva anche giovani che volevano istruirsi nell’arte della pittura.
Ma questa volta desiderava servirsi di una giovane del paese, doveva essere immortalata una bellezza locale, con un viso casto e puro come Maria. Il padre di Nardolina certamente non lo avrebbe consentito, occorreva la mediazione di don Colandrea. Infastidito da questa ennesima richiesta, il parroco a tutta prima sbuffò alquanto. Mai una fanciulla del luogo aveva posato per un pittore ed essere la modella di un artista significava, per l’opinione corrente, valere poco più di una pr******ta. E la reputazione, una volta macchiata, non si poteva riabilitare. Ciononostante, seppur a malincuore, si adoperò presso l’oste Jacobo per la richiesta di Cola e, riuscito nell’intento a condizione che la posa sarebbe avvenuta in chiesa, il parroco consigliò il pittore di fermarsi nella locanda che offriva anche alloggio. Aveva fretta di avere la tavola e ve**re da Ascoli ogni giorno significava una perdita di tempo notevole.
E così avvenne. Approntato il disegno della Madonna, colta con lo sguardo rivolto al Bambino Gesù seduto su un cuscino posto sulla sua gamba, fu facile aggiungere in primo piano san Francesco inginocchiato ai suoi piedi.
Maggiore cura richiese dare il colore azzurro al manto della Vergine. Le pennellate non rendevano quanto Cola avrebbe voluto, ed egli non poteva permettersi di usare i preziosi lapislazzuli che donavano una tonalità straordinariamente intensa. Erano troppo costosi. Ed allora soleva utilizzare altri pigmenti blu di un’intensità paragonabile all’oltremare, ma ad un costo nettamente inferiore, talvolta l’azzurrite, altre volte lo smaltino, più a buon mercato perché prodotto con il vetro. Lo smaltino, con il quale stava dipingendo il manto della Madonna per la tavola di San Gennaro, era troppo trasparente e a Cola non piaceva, anche se era il preferito dai pittori veneziani. Ed allora passava e ripassava le pennellate, ma il risultato non migliorava. Per di più il colore, appena steso, si asciugava rapidamente. L’unica consolazione era che l’uso della tempera gli permetteva di ritoccare la tinta più volte, ma l’effetto era deludente. Pertanto, all’ultimo vano tentativo, preso dalla collera, Cola scagliò a terra colore e pennello, imprecando ad alta voce, dimenticando di essere in un luogo sacro e in presenza di una fanciulla.
Nardolina, vedendolo così adirato come mai era avvenuto, quasi spaventata, timidamente si offrì di aiutarlo e gli trovò la soluzione.
Nardolina era una guadara. Raccoglieva le piante di guado e le vendeva a Vannetto che le portava in città ai tessitori e agli artisti per colorare le stoffe e dipinti. Non solo, era anche capace di produrre il colore, separando foglie e radici dal resto della pianta e pestandole ben bene, fino a ridurle in poltiglia. A casa ne aveva giusto un vasetto da consegnare l’indomani a Vannetto, se la sentiva il Maestro di provare il suo colorante azzurro? Cola lo aveva usato qualche volta, ma non era stato soddisfatto della tonalità, stavolta tuttavia si lasciò convincere e volle sperimentare l’azzurro prodotto da Nardolina. Si era affezionato a lei e ne aveva piena fiducia. Pennellata dopo pennellata il mantello della Madonna assumeva via via una splendida nuance di azzurro che soddisfece pienamente il Maestro, lasciandolo incredulo dell’esito… l’ampio manto azzurro bordato da un ricamo aureo che avvolgeva il capo, coperto da due veli bianchi sovrapposti e tutto il corpo della Madonna, era magnifico.
E Cola si mostrò finalmente pago dell’opera realizzata, così come il plebano e i sindaci che l’ammirarono compiaciuti. La spesa era stata notevole, ma ne era valsa la pena.
Di lì a qualche giorno l’artista ricevette il saldo, come annota don Colandrea… il 28 maggio ho pagato il saldo di dieci carlini, un ducato e ventun bolognini al maestro Cola, quindi il dipinto venne murato dietro le colonne mediane dell’altare di San Gennaro dai muratori lombardi e da mastro Francesco, soggetto alla venerazione dei fedeli di Villa San Gennaro per tre secoli, dopo di che il parroco lo vendette per 90 scudi e finì nella quadreria del cardinale Fesch, per prendere poi altre strade…