Ascoli Step by Step

Ascoli Step by Step Alla scoperta della magnifica città delle cento torri passo dopo passo in compagnia di una guida turistica profess.le. Sarai ospite non un semplice tuista!

31/01/2024

Le Marche,paesaggi mozzafiato, ottimo cibo ed un'ottima qualità della vita. I complimenti a Mauro Vettese per lo scatto

Ascoli, l'arte di meravigliarti
31/01/2024

Ascoli, l'arte di meravigliarti

TIPICO ASCOLI - Arte - Cibo - Cultura - Territorio
Arte&Cultura
Nella foto una bellissima veduta del Ponte di Cecco e del Forte Malatesta, sullo sfondo, verso sud, il Colle San Marco che domina la città di Ascoli. (Foto di A. Zeller per Tipico Ascoli - Diritti Riservati)
Forte Malatesta di Ascoli Piceno

Ascoli sul pentagramma
31/01/2024

Ascoli sul pentagramma

31/01/2024

Da Sabato 3 febbraio potrete trovare,
presso la portineria del Monastero "S. Onofrio", le tradizionali ciambelle
benedette di San Biagio.

Vi aspettiamo numerosi!

Ascoli picena e romana Ascoli romana
31/01/2024

Ascoli picena e romana
Ascoli romana

Quintus Petronius Rufus

Durante l'impero romano gli schiavi affrancati dai loro padroni venivano chiamati liberti.
Alcuni di questi, specie nell'età imperiale, fecero sorprendenti carriere: per compensare o far dimenticare la propria origine servile, i più intraprendenti si gettarono in speculazioni lucrose accumulando in fretta grandi capitali per poi dedicarsi all'usura. I liberti più abili e colti
furono cassieri o ufficiali pagatori ed erano coloro che erano spesso impiegati dell’amministrazione pubblica come dispensator (che elargisce) ove amministravano somme anche considerevoli.
Come esempio spesso viene citato da vari scrittori uno schiavo pubblico della colonia di Asculum che venne impiegato nell'amministrazione finanziaria cittadina.
Il suo nome era Quintus Petronius Rufus.
Quinto fu dispensatores e seviro (sacerdote minore).
Nel 1664 fu trovata nei pressi ove attualmente sorge il convento dei frati Cappuccini una lastra di marmo riferita alla costruzione di un tempio dedicato al dio Sole, edificio che il Rufo contribuì accollandosi la maggior parte delle spese.
Questa targa risalente all'impero di Augusto fu eretta da tale C.Taneggio.
“Al sole raggiante alla totalità degli dei,
per la vita del sestumviro Ascolano Quinto Petronio Rufo,
Caio Taneggio cliente di Quinto Petronio,
con altri due clienti fece stazioni per 12 giorni e fece sciogliere il voto”.
Da qui si conferma che il sestumvirato in Ascoli era non solo una carica politica ma anche sacra. Per cui questi sestumviri, sebbene non fossero sacerdoti, avevano il potere di consacrare o dare in appalto edifici sacri.
E' noto che in quel luogo esisteva un tempio intitolato al dio Sole, con il collegio dei Sacerdoti Stazionari, ove si facevano stazioni (visite giornaliere) con preghiere per ottenere la salute dei malati e altre grazie.
Inoltre Rufo finanziò a sue spese l’erezione di una statua dedicata alla Fortuna Redux.
Francesco Antonio Marcucci riporta che ai suoi tempi (prima metà del 1700) era visibile in Ascoli,nei pressi della chiesetta di Sant'Emidio alle Grotte una lapide funeraria in travertino locale alta 118 cm. risalente all'impero di Tiberio con immagini di un uomo e una donna
MU.... ….TINA
Q.PETRONIUS, Q.F. RUFUS
SE.... VIR.SCR.QUIN...
COMINIA QUARTA
C.TANEIUS. CLIENS.
Il Marcucci la legge
Donna Truentina
moglie di Quinto Petronio Rufo,
figlio di Quinto
Sestumviro Sacro quinquennale
Cominia Quarta
Caio Tanejo Cliente
( Sestumviro ascolano Quintus Petronius Rufus e della sua sposa Cominia Quarta donna di Truentum. Questa lapide fu posta da tale C.Taneggio, cliente del Rufo).
In quel luogo Quinto aveva contribuito finanziariamente alla costruzione di un tempio dedicato ad Ercole.
La lapide cui l'epigrafe è pertinente, è divisa in tre registri: quello superiore è costituito da una nicchia quadrangolare entro cui è rappresentata, a rilievo, una scena di congedo tra un uomo ed una donna, il secondo registro è occupato dall'iscrizione; l'incisione è su piano ribassato, la superficie non è corniciata, il terzo registro è lasciato libero e la superficie è grezza, in quanto questa parte doveva rimanere sotterrata.
Il manufatto attualmente si trova presso il Museo Archeologico Statale della città.
Esperti ben più moderni del Marcucci però danno una descrizione e una traduzione completamente diversa e anche più logica
[---?]MV̲[---] Repentina
Q(uintus) Petron[i]us Q(uinti) f(ilius)Ruf̣us
sexvir, scr(iba) quin(quennalicius),
Cominia Quarta,
C(aius) Tampius Celer.
Ovvero
Mu(lier) Repentina
e Quintus Petronius Rufus, figlio di Quintus,
seviro e segretario dei magistrati quinquennali.
Cominia Quarta,
Caio Tampio Celere
A differenza del Marcucci il nome della moglie di Quinto è
Repentina; al sepolcro vengono associati altri due individui, forse altra coppia, di cui è ignoto il legame coi due precedenti.

Foto di copertina di Alberto Cinelli

29/09/2023

Un nuovo studio di un team di scienziati giapponesi ha trovato per la prima volta delle nelle nuvole. Torniamo anche a parlare della question...

16/08/2023

E' IL FIUME principale delle Marche, un “fiume di confine” che, insieme al Castellano, suo affluente principale, ha segnato la storia di Ascoli e del territorio che percorre. In questo articolo vedremo, brevemente, le sue caratteristiche idrogeografiche e come esse hanno inciso sul territorio at...

21/07/2023

Ascoli – Amatrice e il Palio

Tradizionale alleata di Amatrice fu la città di Ascoli.
Nel 568 quando i longobardi invasero l'Italia costituirono tra gli altri il Ducato di Spoleto, suddividendolo in Comitati e Gastaldati; il territorio di Amatrice passò sotto il Comitato di Ascoli.
Carlo Magno, nel 774, conferma il Comitato di Ascoli nel Ducato di Spoleto e fa donazione alla chiesa ascolana delle “Terrae Summatine”.
In un diploma del 12 giugno 1037 l'imperatore Konrad II conferma al vescovo ascolano Bernardo II tutti i beni a suo tempo concessi alla chiesa ascolana dall'imperatore Ottone II.
"… in Matrice et omnia....".
Papa Leone IX nel 1052 conferma al “Comitatu Esculano” vari territori tra i quali Amatrice.
Nel 1056 un Privilegio dell'imperatore Enrico III confermava al vescovo Bernardo II parecchi territori tra i quali
“...successoribus omnem ipsam terram de Summati...”.
Nel 1251 Ascoli, dovendosi difendere dalle incursioni dei norcini, decise di fabbricare un forte (rocca di Arquata) a difesa dei confini occidentali. Una grossa somma di denaro per la costruzione fu improntata dall'Amatrice con Castel Tione.
Nello stesso anno il Cardinale Legato della Marca, Pietro Capozii, restituisce agli ascolani e alla Chiesa di Ascoli tutta la Terra Summatina che da altri era stata occupata.
L'anno seguente Amatrice si pose sotto la protezione di Ascoli con il tributo annuo del Palio di seta e ne ricevette la Cittadinanza.
L'8 settembre 1256 passato alla Santa Sede il Ducato di Spoleto Alessandro IV conferma l’assegnazione delle Terre Summatine al Vescovo di Ascoli. Ultimo atto in cui compare il nome di Summata, sostituito da Matrice.
Intorno al 1265 Re Manfredi di Svevia invase il territorio amatriciano sottraendolo alla soggezione del Comune e della Chiesa di Ascoli e annettendolo al Reame di Napoli.
Nel 1136,1338,1371, Amatrice, dovendo difendersi dagli attacchi della città de L'Aquila, strinse patti di amicizia con Ascoli.
Dai Statuti Ascolani del 1377
“Le terra et le castella che mo sonno tenute presentare palj, cirj et altre cose in ne la dicta festa sonno queste, cioè: ....la terra de l'Amatrice, uno palio;...”
Nei secoli XIV e XV Amatrice è in continua lotta con le città e i castelli circostanti per questioni di confine e di prestigio. Sono rimasti famosi i conflitti con Norcia, Arquata e L'Aquila.
Insieme alle milizie di Ascoli gli amatriciani presero parte al lungo assedio dell’Aquila nel 1424.
Nel 1473 un buon numero di soldati ascolani aiutarono gli amatriciani a riconquistare Civitareale che fu restituita al re Ferdinando di Napoli.
Papa Innocenzo VIII il 28 ottobre 1485 ingiunge agli ascolani di
non portare vettovaglie ad Amatrice, Accumoli e Monte Reale perché non soggette alla S.Sede.
Legato ai terremoti, che colpirono la città di Amatrice nel 1639, nel 1703 e nel 1730, è il culto e la devozione verso Sant'Emidio.
Pur facendo parte sempre del Regno di Napoli la cittadina passò sotto il dominio di vari signorotti.
Infine nel 1759 il feudo amatriciano entrò a far parte dei domini personali del re di Napoli fino all’annessione nel Regno d’Italia, avvenuta nel 1860.
Amatrice e l'Amatriciano hanno fatto parte della Diocesi di Ascoli Piceno fino al 1965.

Immagine da Wikipedia

15/07/2023

Ascoli - Montecalvo e il Palio.

Nel XIII secolo il “castrum Montis Calvi” era feudo della potente famiglia Guiderocchi, una stirpe nobile e irrequieta che riempì, nel bene e nel male, la storia d’Ascoli.
Montecalvo venne occupato dalle truppe angioine nel 1266 insieme ad altri centri dell'acquasantano.
Verso la fine del XIII secolo le rivendicazioni dei legittimi dinasti e la spinosa questione della pertinenza di Montecalvo, costrinsero Papa Nicolò IV a comandare al rettore della Marca, Giovanni Colonna, di marciare sul posto allo scopo di riconquistare la fortezza. Il Colonna pose d’assedio la rocca e il 15 Agosto 1289 la riconsegnò alla Chiesa Romana.
Il 7 ottobre Niccolò IV inviò una Bolla ai fratelli Guiderocchi ordinando loro di ricevere dalle mani del Rettore il castello di Montecalvo ad essi spettante per diritto di dominio.
Nel 1298 Montecalvo
“...si ascrisse alla Cittadinanza di Ascoli, acciò mediante la di lei confederazione fosse fatto sicuro dagl'insulti nemici. Ed Ascoli accettollo per suo confederato coll'obbligo di pagare un Palio in ricorrenza della Festa del glorioso Martire S.Emidio, onore non solito concedersi se non a Terre qualificate,...”.
Il 12 novembre 1301 i Guiderocchi vendettero al Comune di Ascoli la fortezza per 8000 libbre ravennati. La rocca venne destinata a proteggere militarmente la frontiera dello Stato ascolano e la popolazione di Montecalvo.
La rettificazione della vendita di Monte Calvo venne fatta a favore della Città di Ascoli il 30 novembre 1301.
Troviamo sulle Costituzioni Egidiane del 1356 la rocca di nuovo in mano ai Guiderocchi, sebbene essi ormai residenti in Ascoli.
Nel 1377 la sicurezza di quei luoghi fu affidata ad un castellano e sei sergenti e nella prima metà del XV secolo conobbe le pesanti esperienze delle signorie di Ladislao di Durazzo, dei Da Carrara e di Francesco Sforza.
Nel 1518 il territorio venne razziato dai soldati ascolani perché il Sindacato si era rifiutato di pagare le tasse; due anni più tardi la situazione sarà ancora tesa tanto che l'amministrazione di Montecalvo venne esclusa dal commercio con Ascoli.
Paolo II l'8 dicembre 1534 concede agli ascolani la custodia di quella fortezza.
Nel 1539, per risanare le casse dello Stato Pontificio, Papa Paolo III vendette nuovamente la fortezza di Montecalvo al Comune di Ascoli che a sua volta la restaurò.
La posizione di confine favorì lo sviluppo del brigantaggio. Per combatterlo nel 1567 la Santa Sede mandò Candido Zitelli da Norcia a sterminare i malviventi. Si assistette in tempi molto brevi alla distruzione di quasi tutte le ville del Comune di Montecalvo, la stessa rocca venne demolita; numerosi prigionieri furono condotti in Ascoli dove, condannati a morte, furono squartati e i loro corpi trascinati per le vie della città.
Nel 1862 venne cambiato il nome in "Montecalvo del Castellano" ma nel 1865 il comune venne sciolto e annesso ad Acquasanta Terme,

Immagine da luoghidelsilenzio.it

26/06/2023

A gentile richiesta la versione integrale del mio racconto
pubblicato nell’antologia “Le Marche, i borghi”.
Per Folignano ho scritto un racconto tra storia e fantasia su Cola dell'Amatrice che per la chiesa di San Gennaro dipinse una tavola meravigliosa.
"Mastro Cola dell’Amatrice e Nardolina di Jacobo"

di Erminia Tosti Luna

Tre uomini, uno a cavallo e due su muli carichi di bisacce, percorrono la strada polverosa per Villa San Gennaro di Folignano, piccolo borgo alle porte di Ascoli, al confine con il Regno di Napoli.
Mastro Cola, il cavaliere, è un pittore di Amatrice, contattato dal plebano della chiesa di San Gennaro, Colandrea de Pallis, per una committenza: dipingere una tavola per l’altare maggiore della chiesa con l’immagine del Santo titolare.
Mastro Cola è contento perché questo lavoro gli permetterà di guadagnare qualche ducato in più. Il danaro non basta mai, anche se lo chiamano da tutta la Marca a realizzare opere d’arte. È l’unico maschio della famiglia dopo la morte del padre e ci sono tre sorelle da maritare, provvedendole della necessaria dote. Ma non è solo questo il motivo per cui gli piace questo borgo. La gente appare rozza, ma nelle poche volte che vi è stato gli è apparsa accogliente ed ospitale, rispettosa e riverente e lui si sente bene in questo paese nascosto tra i monti, dai paesaggi incomparabili.
Correva la primavera del 1512 e la natura iniziava a rinascere. A mano a mano che salivano su per l’erto sentiero polveroso, boschi, uliveti e campi coltivati sapientemente mostravano la loro bellezza, mentre la montagna dei Fiori ancora innevata si stagliava superba alla loro destra. Ogni tanto i tre incontravano dei pastori con piccole greggi e sostavano presso una delle sorgenti lungo la strada che invitavano ad una sorsata d’acqua fresca. Si fermavano a scambiare una parola con qualche contadino all’opera nei campi che, riconoscendo nel cavaliere un signore di città, si scappellavano meravigliandosi. Cosa ci faceva un signore come lui in un paese come Villa San Gennaro, dove un forestiero era raro incontrarlo?
A dire il vero, di forestieri se ne vedevano durante la fiera del patrono a settembre, soprattutto provenienti dal vicino Regno con i quali i rapporti erano buoni. Talvolta passavano dei venditori di cianfrusaglie, qualche poveretto in cerca di elemosine o eremiti scesi dalla montagna dei Fiori. Una volta era giunto in paese addirittura un maestro vagante, di quelli che si impegnavano ad insegnare a leggere e a scrivere in cambio di vitto, alloggio e qualche soldo.
E poi qualche anno prima erano arrivati i francesi invasori che avevano messo a ferro e fuoco tutti i borghi del circondario, arrecando danni anche alla parrocchiale di San Gennaro. Per questo il plebano e i sindaci della comunità avevano pensato di mettere a nuovo l’edificio e di adornarlo con un dipinto. Rivolgersi a mastro Cola, che in Ascoli lavorava alacremente ed era l’artista più in voga del momento, era stato spontaneo. San Gennaro avrebbe avuto la sua bella opera d’arte, come le più importanti città, i paesani ne sarebbero stati orgogliosi e i forestieri l’avrebbero ammirata.
Il denaro non mancava perché i fedeli proprietari delle terre circostanti lasciavano scudi e ducati sonanti alla parrocchia e i magistri de preta, gli abilissimi scalpellini lombardi, potevano essere pagati anche in natura con cereali, vino, polli.
Per il completamento dei lavori nella chiesa occorreva un bel quadro ed allora…
Cola andava a Folignano per mostrare la bozza del disegno ai committenti e incontrare Vannuccio, il falegname della vicina Lisciano che aveva fatto da intermediario con don Colandrea. Cola lo conosceva perché si era servito di lui altre volte per la preparazione delle tavole da dipingere e lo riteneva un abile artigiano. Per questo intendeva rivolgersi a lui anche per l’opera di San Gennaro. Gli occorrevano tre tavole che magistro Francisco Albanensi avrebbe incollato e fermato con chiodi di sicurezza.
Ed ora stava per presentare la composizione al plebano e ai sindaci della comunità. Saliva in paese accompagnato dall’aiutante Guidotto e dal famulo Marinuccio. Era soddisfatto del progetto che aveva concepito, non avrebbe posto al centro il Santo titolare, ma la Madonna col Bambino in grembo e ai lati San Gennaro, San Pietro e San Francesco, usando colori a tempera.
Aveva due soli timori: l’approvazione dei committenti e trovare un volto per la giovane Madonna che intendeva dipingere.
Il plebano e i sindaci erano rimasti sorpresi della composizione, avrebbero preferito san Gennaro al centro, ma, dopo i ma e i se, i loro tentativi di modificare l’opera erano rimasti inascoltati. Il Maestro era irremovibile ed aveva anche manifestato l’intenzione di rinunciare al lavoro, pertanto, dopo un breve conciliabolo, avevano deciso di accettare obtorto collo la scelta di Cola, ma avevano chiesto al pittore una mezz’ora di tempo, invitandolo a farsi un giro per il borgo in attesa della loro decisione definitiva.
Cola uscì dalla canonica e si avviò verso l’osteria sulla piazzetta del paese, dove lo attendevano Guidotto e Marinuccio. Avrebbe bevuto un bicchiere di vino per accompagnare il pane imbottito che si era portato da casa.
Il locale era buio e piccolo, impregnato dell’odore forte del vino, gli avventori erano pochi perché era l’ora del pranzo, ma in un angolo due giovani stavano giocando a dadi. Il gioco era proibito dagli Statuti della città di Ascoli e le ammende nei confronti dei trasgressori erano salate, e colpivano anche gli spettatori, non solo i giocatori. Era permesso solo se la posta era il vino e non il denaro, ma i tavernieri spesso non rispettavano la legge, anche perché i controlli a Villa San Gennaro erano rarissimi.
Cola e i suoi lavoranti si sedettero, in attesa di ordinare un boccale di vino rosso. Iniziarono a mangiare il pane col tocco di formaggio e, con non poca meraviglia, videro uscire da una porta sul retro del locale una fanciulla che si dirigeva verso di loro.
Una meretrice, fu subito il loro pensiero, pronta a soddisfare le voglie dei forestieri, come accadeva spesso nella Marca e un po’ ovunque. Ma il Maestro era dubbioso, conosceva bene il mondo attraverso i suoi viaggi e la giovane aveva un volto dai tratti troppo delicati, non volgari, e il suo sguardo era quello di un’innocente. Aveva avuto come modelle delle meretrici e le riconosceva in un batter d’occhio. La giovane non lo era. Infatti Nardolina, così si chiamava la fanciulla, era la figlia dell’oste e, rimasta orfana della mamma, quel giorno aveva lasciato la raccolta del guado e aveva dato una mano nella gestione della locanda al padre malato.
Aveva i capelli raccolti, celati da un fazzolettone a quadri, ma Cola notò immediatamente la bellezza dei tratti del suo viso.
Tra le grida dei giocatori che imprecavano, i tre consumarono il loro pasto, quindi pagarono alcuni bolognini per la consumazione e, a lenti passi, si avviarono verso la canonica, godendo del tepore primaverile e del paesaggio incantevole attorno al paese. La montagna dei Fiori svettava imponente, mostrandosi ancora innevata sulla sommità, il torrente Marino scorreva lungo la valle sottostante dove era sito Castel Folignano, l’ultima roccaforte del Papa al confine con il Regno di Napoli. Un gregge, che percorreva la strada verso il colle Giammatura dove aveva fatto la sua comparsa l’erba fresca e tenera, li costrinse a fermarsi. Che pace a due passi dalla rumorosa Ascoli!
L’incontro con il plebano e i sindaci ebbe i frutti sperati. Avevano fiducia in lui e soprattutto erano consci che non potevano lasciare un’occasione come quella, possedere l’opera di un artista come Cola, famoso, richiestissimo, ben retribuito e adorato dagli ascolani. Un vero onore poter avere un suo dipinto in un borgo come il loro, pressoché sconosciuto e tagliato fuori dalle principali vie di comunicazione.
Stabilito il compenso in sonanti ducati d’oro del valore di Marca, Cola e i suoi aiutanti scesero in città, contenti del contratto e del lavoro che si apprestavano a realizzare.
Il primo problema era stato risolto, ma il secondo si preannunciava più difficoltoso, anche se il volto di Nardolina appariva e scompariva nella mente del pittore.
Dopo qualche settimana di intenso lavoro, come era il suo solito, Cola tornò a Folignano, per proporre all’attenzione del plebano le tavole laterali, dove aveva raffigurato i Santi Pietro e Gennaro in sontuose vesti liturgiche:
San Pietro era dipinto anziano, dalla folta barba bianca, secondo la tradizionale iconografia descritta da Eusebio di Cesarea, con una croce astile in mano mentre riceve dal Bambino le simboliche chiavi d’oro e d’argento che, secondo la Traditio Clavum, rappresentano il potere spirituale e quello temporale. Indossa abiti pontificali e sul capo ha il triregno ornato da gemme e perle, con la cuspide a ghianda, a simboleggiare il Papa Giulio II della Rovere.
San Gennaro era ritratto in abiti vescovili, di aspetto giovanile, con una mitria sul capo, anch’essa terminante a forma di ghianda, nella mano destra la Bibbia aperta, nella sinistra l’ampolla contenente il proprio sangue. A completamento della figura, un pastorale aureo terminante con una melagrana, simbolo del martirio dei Santi e della resurrezione di Cristo.
La parte centrale dell’opera era rimasta bianca, appena abbozzata la composizione che intendeva dipingere: Maria con il Bambino in grembo e San Francesco inginocchiato. Il Maestro cercava un volto della Vergine particolare che non riusciva a trovare, ma bastò un’altra visita all’osteria per togliere ogni dubbio. Rivide la bella fanciulla e gli fu tutto chiaro. Nardolina aveva il viso che cercava, doveva soltanto vederla con i capelli sciolti per essere sicuro. Come avrebbe potuto convincerla a posare per lui?
Altre volte aveva usato la sua fantasia nel rappresentare volti femminili, non era facile trovare donne disponibili a posare per un artista, e negli ultimi tempi si era rivolto a delle pr******te che si trovavano in abbondanza ad Ascoli. Molte erano delle immigrate giunte dalle terre al di là dell’Adriatico al seguito di Dalmati, Schiavoni, Albanesi per sfuggire ai Turchi che imperversavano nell’Europa orientale. Le si riconosceva dai loro costumi tradizionali dai colori sgargianti e dai cappelli di piume, chiamati comunemente dal volgo “bisetra cm pennis et pennacchio”. Era il segno distintivo riservato alle meretrici che venivano tollerate, purché si tenessero lontane dal Palazzo del Comune, dai conventi e dalle chiese, pena la fustigazione pubblica.
Esse non avevano remore e per denaro erano pronte a posare senza vergogna. Spesso diventavano amanti dei pittori e Cola lo sapeva bene, non si contavano le donne che aveva avuto come modelle e con le quali aveva avuto brevi relazioni appassionate, Ginevra, Fiammetta, Lucrezia, Agnese, Fiorenza, Agnella, Bartolomea, Lisabetta, Martinella… Erano loro a bussare alla porta della sua bottega nel quartiere di santa Maria Intervineas dove il Maestro accoglieva anche giovani che volevano istruirsi nell’arte della pittura.
Ma questa volta desiderava servirsi di una giovane del paese, doveva essere immortalata una bellezza locale, con un viso casto e puro come Maria. Il padre di Nardolina certamente non lo avrebbe consentito, occorreva la mediazione di don Colandrea. Infastidito da questa ennesima richiesta, il parroco a tutta prima sbuffò alquanto. Mai una fanciulla del luogo aveva posato per un pittore ed essere la modella di un artista significava, per l’opinione corrente, valere poco più di una pr******ta. E la reputazione, una volta macchiata, non si poteva riabilitare. Ciononostante, seppur a malincuore, si adoperò presso l’oste Jacobo per la richiesta di Cola e, riuscito nell’intento a condizione che la posa sarebbe avvenuta in chiesa, il parroco consigliò il pittore di fermarsi nella locanda che offriva anche alloggio. Aveva fretta di avere la tavola e ve**re da Ascoli ogni giorno significava una perdita di tempo notevole.
E così avvenne. Approntato il disegno della Madonna, colta con lo sguardo rivolto al Bambino Gesù seduto su un cuscino posto sulla sua gamba, fu facile aggiungere in primo piano san Francesco inginocchiato ai suoi piedi.
Maggiore cura richiese dare il colore azzurro al manto della Vergine. Le pennellate non rendevano quanto Cola avrebbe voluto, ed egli non poteva permettersi di usare i preziosi lapislazzuli che donavano una tonalità straordinariamente intensa. Erano troppo costosi. Ed allora soleva utilizzare altri pigmenti blu di un’intensità paragonabile all’oltremare, ma ad un costo nettamente inferiore, talvolta l’azzurrite, altre volte lo smaltino, più a buon mercato perché prodotto con il vetro. Lo smaltino, con il quale stava dipingendo il manto della Madonna per la tavola di San Gennaro, era troppo trasparente e a Cola non piaceva, anche se era il preferito dai pittori veneziani. Ed allora passava e ripassava le pennellate, ma il risultato non migliorava. Per di più il colore, appena steso, si asciugava rapidamente. L’unica consolazione era che l’uso della tempera gli permetteva di ritoccare la tinta più volte, ma l’effetto era deludente. Pertanto, all’ultimo vano tentativo, preso dalla collera, Cola scagliò a terra colore e pennello, imprecando ad alta voce, dimenticando di essere in un luogo sacro e in presenza di una fanciulla.
Nardolina, vedendolo così adirato come mai era avvenuto, quasi spaventata, timidamente si offrì di aiutarlo e gli trovò la soluzione.
Nardolina era una guadara. Raccoglieva le piante di guado e le vendeva a Vannetto che le portava in città ai tessitori e agli artisti per colorare le stoffe e dipinti. Non solo, era anche capace di produrre il colore, separando foglie e radici dal resto della pianta e pestandole ben bene, fino a ridurle in poltiglia. A casa ne aveva giusto un vasetto da consegnare l’indomani a Vannetto, se la sentiva il Maestro di provare il suo colorante azzurro? Cola lo aveva usato qualche volta, ma non era stato soddisfatto della tonalità, stavolta tuttavia si lasciò convincere e volle sperimentare l’azzurro prodotto da Nardolina. Si era affezionato a lei e ne aveva piena fiducia. Pennellata dopo pennellata il mantello della Madonna assumeva via via una splendida nuance di azzurro che soddisfece pienamente il Maestro, lasciandolo incredulo dell’esito… l’ampio manto azzurro bordato da un ricamo aureo che avvolgeva il capo, coperto da due veli bianchi sovrapposti e tutto il corpo della Madonna, era magnifico.
E Cola si mostrò finalmente pago dell’opera realizzata, così come il plebano e i sindaci che l’ammirarono compiaciuti. La spesa era stata notevole, ma ne era valsa la pena.
Di lì a qualche giorno l’artista ricevette il saldo, come annota don Colandrea… il 28 maggio ho pagato il saldo di dieci carlini, un ducato e ventun bolognini al maestro Cola, quindi il dipinto venne murato dietro le colonne mediane dell’altare di San Gennaro dai muratori lombardi e da mastro Francesco, soggetto alla venerazione dei fedeli di Villa San Gennaro per tre secoli, dopo di che il parroco lo vendette per 90 scudi e finì nella quadreria del cardinale Fesch, per prendere poi altre strade…

26/06/2023

Maddalena Dalmonte Sgariglia

Articolo a cura di Erminia Tosti Luna

Conosciamo tutti la notevole generosità della nobile famiglia Sgariglia che donò il suo immenso patrimonio alla città di Ascoli per opere di beneficenza (palazzi, ville, terreni vennero donati alla Congregazione di Ca**tà di Ascoli, oggi sono di proprietà comunale) ma forse sappiamo poco della contessa Maddalena, appartenente ad un altro ramo familiare che fu altrettanto prodiga, probabilmente dimenticata perché, ahimé, donna, e la storia non è stata molto benefica verso il genere femminile, è risaputo.
La contessa Maddalena Dalmonte Sgariglia (1846-1916) di straordinaria e raffinata intelligenza e di gentile aspetto. Modesta, affabile e di semplici modi come gli altri esponenti della famiglia, ebbe una formazione scolastica ad opera di precettori privati che assecondarono le sue inclinazioni e le sue passioni: le lettere, l’arte e la musica. Soprattutto verso la musica Maddalena si sentiva particolarmente versata e fu mandata a studiare al Conservatorio di Napoli, sotto la guida dell’illustre Maestro Beniamino Cesi, autorevole rappresentante della scuola pianistica partenopea ed europea.
Maddalena divenne una pianista esimia, apprezzata nei suoi concerti tenuti in varie città d’Italia. Spesso si esibiva nel suo palazzo di Ascoli davanti a compositori famosi, ospiti della sua famiglia, incantati dalla sua valentia.
Dotata di spirito sensibile, si prodigò per la realizzazione di opere caritatevoli e, a soli 22 anni, nel 1868, aprì nella sua casa una scuola professionale per avviare al lavoro le figlie del popolo, gratuitamente e tra le più valide nell’Italia del tempo.
Era animata da vero spirito sociale e, oltre a provvedere le giovinette di una solida educazione, le preparava alle attività domestiche, al taglio e cucito, al ricamo, al canto e al disegno. Ben presto la notevole abilità e la qualità dei manufatti della scuola si diffusero ovunque, non solo in città, tanto che tutte le nobili famiglie gareggiavano nelle committenze, soprattutto di ricami in seta e oro, per i cui disegni Maddalena si rivolgeva all’artista Giorgio Paci.
Viste le sue importanti e vaste relazioni, Maddalena potè giovarsi delle innumerevoli richieste da parte di sodalizi religiosi e laici per ricami di arredi sacri, di stendardi e corredi da sposa per famiglie nobili di tutta Italia. Persino i Savoia, i re d’Italia, fecero acquisti da questa scuola e molte opere ricevettero premi all’Esposizione Vaticana del 1888, inaugurata da Papa Leone XIII. Le ragazze della scuola ascolana ebbero la soddisfazione di fornire i capi più belli e raffinati per il corredo di Giuseppina Crispi, figlia dello Statista e Presidente del Consiglio del Regno d’Italia, andata sposa al principe di Linguaglossa Francesco Paolo Bonanno il 10 gennaio 1895.
Animata da un profondo senso di giustizia e di rispetto per il lavoro delle sue allieve, divise sempre con loro i proventi del laboratorio. Generosissima con tutti, profuse ovunque doni, scrive Riccardo Gabrielli, e arricchì la chiesa di sant’Angelo Magno di preziose opere d’arte di finissimo ricamo.
Il professore Giovanni Spalazzi, scrittore ed emerito insegnante di letteratura italiana e filosofia nel nostro liceo, uomo di vasta cultura letteraria, storica ed artistica, fu un suo grande ammiratore e le dedicò novelle e racconti, oltre una raccolta di sonetti in dialetto ascolano.
Purtroppo dopo tanti anni di fecondo lavoro la scuola di Maddalena Sgariglia Dal Monte venne chiusa e non ne conosciamo il motivo. “A causa delle solite ingratitudini”, scrive il Gabrielli, e la benemerita fondatrice abbandonò “giustamente disgustata” Ascoli per Roma, dove visse sino alla morte in un monastero di suore nei pressi di Santa Croce di Gerusalemme, lasciando loro il suo notevole patrimonio.

DI ASCOLI DA VIVERE · 21 GIUGNO 2019

Indirizzo

Ascoli Piceno

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