02/06/2021
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𝗜𝗹 𝗯𝗮𝗿𝗼𝗰𝗰𝗼 𝗱𝗶 𝗡𝗼𝘁𝗼 𝗮 𝗺𝗲𝘁𝗮̀ 𝘁𝗿𝗮 𝗩𝗲𝗿𝘀𝗮𝗶𝗹𝗹𝗲𝘀 𝗲 𝗡𝘆𝗺𝗽𝗵𝗲𝗻𝗯𝘂𝗿𝗴
𝗔 𝗡𝗼𝘁𝗼 𝗿𝗶𝘀𝗶𝗲𝗱𝗲 𝗹’𝗘𝘂𝗿𝗼𝗽𝗮 𝗱𝗲𝗹 𝗫𝗩𝗜𝗜𝗜 𝘀𝗲𝗰𝗼𝗹𝗼
È proprio vero quando si dice – riprendendo “Via del Campo” – che dal letame nascono i fiori. In questo caso il letame è rappresentato da un terremoto, quello del 11 gennaio 1693 che distrusse – secondo i documenti spagnoli del tempo – l’intera Val di Noto. Da quel momento in poi iniziò una ricostruzione a ritmi forsennati, difatti il sud-est della Sicilia divenne un vero e proprio cantiere a cielo aperto. Noto si ritrovò al centro del fervore barocco e non accusò alcun ritardo rispetto alle “cugine” europee. La fenice netina risorta dalle sue ceneri ha spostato il suo centro di circa 10 chilometri in un punto più agevole.
Alla costruzione della nuova Noto parteciparono numerosissime maestranze locali coadiuvate da architetti siciliani. Secondo gli scritti del saggista Vincenzo Co***lo:
“𝑇𝑢𝑡𝑡𝑖 𝑑𝑜𝑣𝑒𝑡𝑡𝑒𝑟𝑜 𝑎𝑣𝑒𝑟𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑔𝑟𝑎𝑛𝑑𝑒 𝑠𝑢𝑝𝑒𝑟𝑏𝑖𝑎, 𝑢𝑛 𝑔𝑟𝑎𝑛𝑑𝑒 𝑜𝑟𝑔𝑜𝑔𝑙𝑖𝑜, 𝑢𝑛 𝑎𝑙𝑡𝑜 𝑠𝑒𝑛𝑠𝑜 𝑠𝑖 𝑠𝑒́, 𝑑𝑖 𝑠𝑒́ 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑖𝑛𝑑𝑖𝑣𝑖𝑑𝑢𝑖 𝑒 𝑑𝑖 𝑠𝑒́ 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑐𝑜𝑚𝑢𝑛𝑖𝑡𝑎̀, 𝑠𝑒 𝑠𝑢𝑏𝑖𝑡𝑜 𝑑𝑜𝑝𝑜 𝑖𝑙 𝑡𝑒𝑟𝑟𝑒𝑚𝑜𝑡𝑜 𝑣𝑜𝑙𝑙𝑒𝑟𝑜 𝑒 𝑠𝑒𝑝𝑝𝑒𝑟𝑜 𝑟𝑖𝑐𝑜𝑠𝑡𝑟𝑢𝑖𝑟𝑒 𝑚𝑖𝑟𝑎𝑐𝑜𝑙𝑜𝑠𝑎𝑚𝑒𝑛𝑡𝑒 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑐𝑖𝑡𝑡𝑎̀, 𝑐𝑜𝑛 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑡𝑜𝑝𝑜𝑔𝑟𝑎𝑓𝑖𝑒, 𝑐𝑜𝑛 𝑞𝑢𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑎𝑟𝑐ℎ𝑖𝑡𝑒𝑡𝑡𝑢𝑟𝑒 𝑏𝑎𝑟𝑜𝑐𝑐ℎ𝑒: 𝑠𝑐𝑒𝑛𝑜𝑔𝑟𝑎𝑓𝑖𝑐ℎ𝑒, 𝑎𝑟𝑑𝑖𝑡𝑒, 𝑎𝑏𝑏𝑎𝑔𝑙𝑖𝑎𝑛𝑡𝑖 𝑐𝑜𝑛𝑐𝑟𝑒𝑡𝑖𝑧𝑧𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑠𝑜𝑔𝑛𝑖, 𝑟𝑒𝑎𝑙𝑖𝑧𝑧𝑎𝑧𝑖𝑜𝑛𝑖 𝑑𝑖 𝑓𝑎𝑛𝑡𝑎𝑠𝑡𝑖𝑐ℎ𝑒 𝑢𝑡𝑜𝑝𝑖𝑒”.
𝑪𝒆𝒔𝒂𝒓𝒆 𝑩𝒓𝒂𝒏𝒅𝒊 la soprannominò “il giardino di pietra” per la sua pietra calcarea che sfuma dall’oro al rosa, e vedendola è facile intuirne il perché. Camminando a testa in su, i nostri occhi vengono abbagliati da un’esplosione di prospettive studiate a grande scala e un impianto barocco forte, omogeneo, unitario basato su assi paralleli e uno schema ortogonale, scalinate scenografiche, palazzi nobiliari, chiese che si inerpicano agili. Una specie di grande teatro a cielo aperto. Il barocco netino si colloca perfettamente a metà tra i fasti di Versailles e il castello delle Ninfe di Monaco di Baviera.
𝗡𝗼𝗻 𝗲̀ 𝘂𝗻 𝗯𝗮𝗿𝗼𝗰𝗰𝗼 “𝗶𝘀𝗼𝗹𝗮𝘁𝗼”
La prima sensazione che ti occupa la mente mentre passeggi sull’Avenue de Paris deriva dal'”isolamento” forzato della reggia di Versailles rispetto al resto dei fabbricati. Durante la seconda fase di espansione del palazzo, l’architetto Le Vau aggiunse tre ali in pietra per trasformare il vetusto castello di Luigi XIII nella reggia che conosciamo. Ampliamenti sferzanti, incuranti del resto: la celebrazione del sovrano e dei fasti della corona di Francia non potevano essere fermati da ciò che vi era al di là della cancellata. Ben diverso è stato il destino di Noto, sapientemente scelto dagli architetti Rosario Gagliardi, Vincenzo Sinatra e Paolo Labisi.
Essi si impegnarono per mantenere un certo equilibrio tra i motivi ornamentali e l’architettura nei quali sono inseriti come nel caso del Palazzo Nicolaci di Villadorata. Il loro ingegno li vide all’opera anche nella realizzazione di architetture elaborate, con l’impiego di facciate concave (come nella chiesa del Carmine o in quella di San Carlo Borromeo al Corso), convesse (come la chiesa di San Domenico) o addirittura curvilinee, come nella torre campanaria del seminario. Il critico d’arte Ugo Ojetti descrisse così la città:
“𝑁𝑜𝑡𝑜 𝑎𝑖 𝑝𝑟𝑖𝑚𝑖 𝑑𝑒𝑙 𝑆𝑒𝑡𝑡𝑒𝑐𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑒̀ 𝑢𝑛𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑒 𝑛𝑜𝑠𝑡𝑟𝑒 𝑐𝑖𝑡𝑡𝑎̀ 𝑠𝑜𝑟𝑡𝑒 𝑑’𝑢𝑛 𝑐𝑜𝑙𝑝𝑜, 𝑝𝑒𝑙 𝑓𝑎𝑡𝑡𝑜 𝑠𝑒𝑚𝑏𝑟𝑎 𝑑’𝑢𝑛𝑎 𝑣𝑜𝑙𝑜𝑛𝑡𝑎̀ 𝑠𝑜𝑙𝑎, 𝑖𝑚𝑚𝑎𝑔𝑖𝑛𝑒 𝑝𝑟𝑒𝑐𝑖𝑠𝑎 𝑑𝑒𝑙 𝑔𝑢𝑠𝑡𝑜 𝑑’𝑢𝑛’𝑒𝑝𝑜𝑐𝑎. 𝐴 𝑣𝑖𝑠𝑖𝑡𝑎𝑟𝑙𝑎, 𝑝𝑎𝑙𝑎𝑧𝑧𝑖, 𝑐ℎ𝑖𝑒𝑠𝑒, 𝑐𝑜𝑛𝑣𝑒𝑛𝑡𝑖, 𝑡𝑒𝑎𝑡𝑟𝑜 𝑝𝑎𝑟𝑒 𝑢𝑛 𝑚𝑜𝑛𝑢𝑚𝑒𝑛𝑡𝑜 𝑢𝑛𝑖𝑐𝑜, 𝑡𝑢𝑡𝑡𝑜 𝑐𝑜𝑠𝑡𝑟𝑢𝑖𝑡𝑜 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑡𝑢𝑓𝑜 𝑔𝑖𝑎𝑙𝑙𝑜, 𝑛𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑠𝑡𝑒𝑠𝑠𝑜 𝑏𝑎𝑟𝑜𝑐𝑐𝑜, 𝑐𝑜𝑚𝑒 𝑑𝑖𝑐𝑒 𝑏𝑒𝑛𝑒 𝑖𝑙 𝐹𝑖𝑐ℎ𝑒𝑟𝑎, 𝑓𝑖𝑎𝑚𝑚𝑒𝑔𝑔𝑖𝑎𝑛𝑡𝑒, 𝑐𝑜𝑛 𝑢𝑛𝑎 𝑔𝑟𝑎𝑛𝑑𝑖𝑜𝑠𝑖𝑡𝑎̀ 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑝𝑎𝑢𝑠𝑒 𝑒 𝑢𝑛𝑎 𝑟𝑒𝑔𝑎𝑙𝑖𝑡𝑎̀ 𝑠𝑒𝑛𝑧𝑎 𝑎𝑣𝑎𝑟𝑖𝑧𝑖𝑎”.
Purtroppo nel 1996 un’altra sciagura colpì Noto. Difatti la Cattedrale di San Nicolò a causa di un grave difetto costruttivo dei pilastri della navata centrale, il primo dei piloni di destra che fa da sostegno alla cupola rovinò al suolo, trascinando con sé nel crollo la cupola stessa e per effetto domino l’intera navata destra, la navata centrale e il transetto destro. La ricostruzione, terminata ufficialmente nel 2016, ha restituito alla Cattedrale una decorazione coerente con la liturgia e l’iconografia.
Fortunatamente il commissario nominato per la ricostruzione era Vittorio Sgarbi. Il critico d’arte ha saputo restituire un’immagine degna della sacralità della Cattedrale, allontanando gli spettri della indigeribile architettura delle chiese moderne.
di Marco Spada
tirrenico