Segnali Deboli

Segnali Deboli ...dal Blog di Pier Pierucci Chissà se è utile, per la nostra felicità, capire come va il mondo. Sicuramente può essere interessante.

Anche se non sempre…
Leggere i segnali deboli dal mondo è un esercizio. Ognuno coglie segnali diversi: confrontarseli può essere un modo di condividere considerazioni, riflessioni, banalità…
Anche se ai fini pratici può non servire a nulla (ma non credo), io la cosa la trovo divertente. E non è poco.

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Pier Pierucci è responsabile marketing e creatività del parco Aquafan di Riccione.

Per Aquafan gestisce anche il Laboratorio delle Percezioni, il “soggetto creativo” che ogni tanto si ricorda di mettere in funzione. E’ responsabile di Operazione Riccione Notte, il pacchetto turistico più famoso della Riviera Romagnola. E’ socio fondatore della NEO srl, che possiede RiccioneTV, il laboratorio creativo di produzioni video.

LA GRANDE DIMISSIONE E IL LAVORO CHE DIVENTA HOP...Il lavoro, un fenomeno che da sempre accompagna gli esseri umani come...
22/02/2024

LA GRANDE DIMISSIONE E IL LAVORO CHE DIVENTA HOP...

Il lavoro, un fenomeno che da sempre accompagna gli esseri umani come una condanna, nel XXI secolo potrà finalmente diventare una gioia creativa.
L’ha detto il sociologo Mimmo De Masi, scomparso pochi mesi fa.
Con questo incipit, inizia un libro molto interessante, L’era del lavoro libero, scritto da un ottimo Francesco Delzio, che ha avuto la capacità di creare una sintesi di buona parte delle cose che ho letto, ascoltato e di cui mi sono documentato in questi anni sulla mutazione in atto del mondo del lavoro e dei riflessi che sta avendo e avrà sulle nuove generazioni.

Delzio parte indicando due nuove variabili, la Great Resignation e il Job Hopping, entrambe accomunate da una novità assoluta: queste variabili non nascono più dalle strategie aziendali, quindi dalla domanda di lavoro, ma hanno origine "dal basso", ovvero dall'offerta.
E più precisamente dal comportamento imprevisto e imprevedibile dei lavoratori delle Generazioni Millennials e Zeta.

La prima variabile è la great resignation, ovvero la "grande dimissione".
Delzio in tutto il libro snocciola dati esemplari: nei primi 9 mesi del 2022, ben 1 milione 660 mila italiani si sono dimessi volontariamente dal posto di lavoro, in aumento del 22% rispetto all'analogo periodo del 2021, anno in cui le dimissioni volontarie dal lavoro hanno superato quota 2 milioni. E secondo l'Associazione Italiana dei Direttori del Personale, il fenomeno delle dimissioni volontarie dei giovani riguarda oggi il 60% delle imprese del nostro Paese.
Non ce n'eravamo accorti…ma è da tempo che i dipendenti hanno iniziato a scegliersi il datore di lavoro.
Ma quali sono le cause del fenomeno?
Qui Delzio introduce un altro nuovo termine (almeno per me) che è Worklife Balance, ovvero l’equilibrio tra lavoro e vita, affermando che è molto cresciuto il peso attribuito da parte dei lavoratori alla libertà e alla flessibilità nella gestione dei propri tempi di vita. E al tempo stesso il lavoro non viene più percepito soltanto come mezzo di sostentamento e fonte di uno status sociale, ma anche come strumento di un più ampio progetto personale. Essere gratificati da ciò che si fa e da come lo si fa, coltivare le proprie passioni, mettere in campo la propria creatività, valorizzare la vita privata sono diventate esigenze sempre più forti. Prioritarie. Non più negoziabili.
Sto esattamente riportando quello che è scritto nel testo di Delzio, il quale a un certo punto cita pure Romano Prodi: «La realizzazione di sé stessi non viene più ricercata nel lavoro, ma nell'organizzazione della propria vita, perché lo stipendio, la carriera e la stabilità del rapporto di lavoro vengono messi in secondo piano di fronte all'esigenza più personale di essere padroni della propria quotidianità».
Quindi dobbiamo smettere di stupirci verso chi lascia il proprio posto di lavoro perché non si ritrova più un senso in ciò che si fa.

La seconda variabile è il cosiddetto job hopping, fenomeno molto radicato negli USA.
Significa "saltare da un lavoro a un altro", prerogativa soprattutto dei Millennials, che lo utilizzano per assicurarsi stipendi più alti e un posto di lavoro con un miglior worklife balance.
Certamente un job hopper potrebbe essere giudicato un lavoratore poco affidabile, pronto ad andarsene a fronte di una più vantaggiosa offerta di lavoro, ma il fenomeno è comunque inarrestabile.

Great resignation, job hopping, nuova visione del lavoro, worklife balance, mercato del lavoro liquido…
La domanda è: politica e sindacati in Italia e nel mondo se ne sono accorti?
Ovviamente parliamo di quella parte del mondo che può permettersi di mettere in priorità questi temi.

Sta di fatto che oggi la maggior parte dei responsabili delle risorse umane di multinazionali e grandi aziende afferma che attrarre talenti è più difficile rispetto al periodo pre-pandemia e che le aziende che offrono opzioni di lavoro ibrido ai propri dipendenti sono avvantaggiate nella "caccia" ai talenti.

I nati tra il 1997 e il 2012, quelli della Generazione Z, entro il 2025 rappresenteranno circa il 30% della forza lavoro globale e cambieranno radicalmente l'ambiente di lavoro.
Quelli della Gen Z sono abituati a vivere con gli algoritmi di Meta, Netflix, Spotify, Amazon e sanno esattamente cosa vogliono guardare, ascoltare o acquistare: se lo aspettano non solo come consumatori, ma anche sul posto di lavoro.
Quindi: flessibilità sul luogo e gli orari di lavoro, velocità dei processi decisionali, formazione continua.
Delzio lancia un richiamo ai datori di lavoro che dovrebbero riconoscere queste (legittime) aspettative.
Nel frattempo, nei colloqui di lavoro i giovani esprimono nuove e diverse priorità e aspettative: stipendio e possibilità di carriera non fanno di per sé la differenza.
In sostanza, scrive sempre Delzio, la Generazione Z si aspetta e cerca non soltanto un lavoro, ma qualcosa di più coinvolgente: un senso di appartenenza, una missione condivisa, un set di valori, un ruolo sociale d'impresa nei quali potersi riconoscere come persona.

A questo punto entra in gioco un nuovo termine: quiet quitting.
Quiet quitting, lavorare senza stressarsi, «la pratica di non lavorare più di quanto si è contrattualmente obbligati a fare, soprattutto per dedicare più tempo alle attività personali; oppure la pratica di lavorare poco o nulla, pur essendo presenti sul posto di lavoro».
In parole povere, meno coinvolti…

Questo scenario che presenta la GenX è una sorta di banco di prova.
Il mondo del lavoro presenta ulteriori sfide, ancor più complesse.
Basti pensare al rischio bomba sociale che si sta affacciando, dal momento in cui gli assegni pensionistici hanno superato gli stipendi addirittura di 1,2 milioni di unità (da un report della CGIA di Mestre, sulla base di dati ISTAT e INPS, nel 2021 sono state erogate 22 milioni e 759 mila pensioni contro 22 milioni 554 mila stipendi).

Soluzioni vanno trovate al più presto, ma il processo ha bisogno di tanta, tanta tolleranza.
Dobbiamo tutti essere coscienti che prima di giudicare un comportamento o un fenomeno sociale, occorre entrare nella prospettiva che muove la coscienza dell’altro.
Bisogna comunque muoversi il prima possibile.
Non possiamo rimanere inermi davanti all’attuale scenario, per cui per i datori di lavoro il problema non è più la preparazione inadeguata, ma addirittura la mancanza di candidati.

ESG: è l'acronimo del momento… e questa è una bella notizia!Ok, sulla sostenibilità non si scherza più.Io che arrivo sem...
04/05/2023

ESG: è l'acronimo del momento… e questa è una bella notizia!

Ok, sulla sostenibilità non si scherza più.
Io che arrivo sempre un po' tardi sulle cose, ho ricevuto definitivamente conferma di questo "segnale" a San Patrignano, dove si è tenuto lo scorso 13 aprile il Sustainable Economy Forum.
La star della giornata è stato un acronimo: ESG, che sta per Environmental Social Governance.
Spiegandolo in sintesi: un'azienda ha un approccio ESG quando mette nelle sue priorità sia la sostenibilità ambientale, sia la sostenibilità del contesto sociale in cui opera, sia quella legata al benessere dei propri dipendenti diretti e indiretti.
Al Forum ho personalmente toccato con mano una rivoluzione in atto.Certo, erano "solo" parole quelle che volavano, ma quelle parole sono arrivate da autorevoli personalità del mondo degli affari e della finanza.
Già nel saluto di benvenuto della padrona di casa, Letizia Moratti, si era capito dove si andava a parare: "La sostenibilità deve essere sia ambientale, sia sociale, sia economica… e bisogna agire in fretta. Occorre avere mentalità aperta, ci vogliono approcci nuovi, mettendo in campo le nostre responsabilità individuali per farle diventare collettive. Da ora, bisogna che ognuno faccia la sua parte".
Poco dopo, Luca Orlando, giornalista del Sole 24 ore, ottimo e incalzante moderatore del convegno, ha piazzato una domanda molto diretta sia alla referente di Banca Generali Lucia Silva (responsabile della sostenibilità), che di Banca Intesa Paolo Bonassi (Executive Director Strategic Support): "L'attuazione di un piano ESG, porta beneficio alle aziende?".
La risposta è stata da entrambi gli interlocutori praticamente la stessa: "Valutiamo alle aziende un rating più basso se non c’è attenzione a ESG".
Concetti già sentiti? Può darsi, però forse non con un linguaggio così semplice e diretto.
Poi è arrivato l'intervento che più mi ha colpito: quello di Claudia Parzani, presidente della Borsa Valori. Ecco alcuni passaggi…"Il successo economico va rivisto in ottica di progresso sociale. Il Purpose è uno dei cardini che deve muovere l’impresa. Il valore della governance è un altro tema chiave: a prescindere dalla dimensione, è la qualità che crea valore. L’attenzione e valorizzazione del capitale umano è sempre più importante ed è il tema più centrale nel business attuale: le aziende devono essere in grado di attrarre e trattenere le persone di qualità".
E poi arriva il capolavoro… "Abbiamo mai misurato quanto incide l’infelicità in azienda? Ci siamo mai chiesti che persone siamo noi e come incidiamo verso gli altri?".
Infine due chicche: "Dobbiamo avere più capacità di ascolto e uscire dal giudizio facile sui giovani". Ed ecco la seconda: "Il leader oggi ha bisogno di essere vulnerabile e vero. Dobbiamo sconfiggere lo stereotipo del successo. Solo se sei umile puoi superare i tuoi limiti. Tutto quello che facciamo non è molto se non lo leghiamo a quello che fanno gli altri".
Dai, confessiamolo: rispetto a pochi anni fa, siamo su un altro pianeta.
Interessante come sempre Chicco Testa, ora presidente di Assoambiente, che è partito affermando "Se ci riferiamo agli obiettivi di diminuzione della CO2, dobbiamo cambiare gli occhiali per vedere la realtà. L’aumento di CO2 deriva dalla volontà dei paesi in via di sviluppo di raggiungere maggiore benessere. Negli Stati Uniti il consumo è assai più alto rispetto a noi: se misuriamo le emissioni pro capite di India e Cina scopriremo che sono molto più basse delle nostre". Testa ha anche lanciato un alert su qualche cortocircuito: ad esempio, i pannelli fotovoltaici cinesi vengono spesso prodotti da aziende che utilizzano tecnologie a carbone. E poi ha affermato che per migliorare la sostenibilità, abbiamo bisogno di innovazione tecnologica. Ad esempio, la carne coltivata (ovvero quella che chiamiamo sintetica) potrebbe essere un'ottima innovazione tecnologica. In questo senso, anche il navigatore satellitare è una grande innovazione green, in quanto ci fa risparmiare chilometri di viaggio e benzina. Quindi il suo è stato un appello all'uscire dallo stereotipo per cui la tecnologia non sia al servizio del green. Questa considerazione – per tanti acquisita da tempo – ci rende ancora più consapevoli della situazione strana e complessa che stiamo vivendo, in quanto stiamo affrontando la trasformazione digitale insieme a quella green. E in questo contesto, spesso ci dimentichiamo che l’Europa incide "solo" per l’8% sulle emissioni di CO2: questo l'ha detto lì al Forum Alberto Marenghi, vice presidente di Confindustria.Siccome non la voglio fare molto lunga, riporto in breve altri concetti che mi hanno colpito.
Luca Orlando: "Il capitale umano è sempre più raro… oggi sono i giovani che ci devono scegliere".
Lucia Silva (Banca Generali): "È cresciuta la consapevolezza verso la sostenibilità: una volta il responsabile della sostenibilità faceva riferimento al capo della comunicazione, oggi fa riferimento al Direttore Generale. La sostenibilità è quindi arrivato ad essere argomento centralizzato e pervasivo".
Andrea Rustioni (DG di IGP Decaux): "Abbiamo forte aumento di richieste di prodotti pubblicitari e servizi sempre più sostenibili. Le grandi aziende ci chiedono servizi in cui possono ottenere KPI dove dimostrare il loro impegno sulla sostenibilità e valorizzazione del patrimonio urbano".
Giovanni Sandri (Country Head di Black Rock Italia): "Buona parte dei prossimi mille "unicorni" saranno aziende che hanno operato nella decarbonizzazione.
Cristina Bombassei (CSR di Brembo): "L'ESG manager è la quinta figura più ricercata al momento".
Mirja Cartia d'Asero (AD Gruppo 24 ore): "L’umanesimo imprenditoriale è l’unica strada per lo sviluppo".
Giovanna Iannantuoni (Rettrice Università Bicocca Milano): "Lo sviluppo passa dal capitale umano e dall’innovazione tecnologica. Bicocca sta creando un corso per formare manager ESG".
Infine, nel suo intervento di saluto, Letizia Moratti ha concluso affermando che "per arrivare alla sostenibilità occorre creare connessioni".
Non solo il Forum di San Patrignano è stato per me fonte di nuovi input e di conferme in merito ai temi ESG.
Tra i vari, vorrei citare l'incontro organizzato lo scorso 24 marzo dalla Biblioteca di Santarcangelo, dove il professor Giovanni Boccia Artieri (mio sodale nella Confraternita del gin tonic) ha intervistato Paolo Iabichino, in occasione dell'uscita del suo interessante "Scrivere Civile", edito da Luiss University Press.
Boccia nel suo cappello introduttivo, ha citato un dato di una recente un'indagine IPSOS: "il 65% dei consumatori si aspettano che le aziende si espongano nel prendere posizione nei confronti di tematiche civili e sociali"… e ciò è stato definito "un punto di non ritorno".
Iabichino nel suo intervento è stato fin troppo chiaro: "Nel rapporti con i brand, c'è un rapporto fiduciario nuovo".
Infatti, se da un lato ci siamo noi consumatori che "non siamo più obbligati a consumare tanto, bensì meno", da un altro ci sono le aziende, per cui "la sostenibilità non è un vezzo, ma un obbligo per poter stare sul mercato".
Leggendo le varie chicche di "Scrivere Civile", Iabichino ci evidenza che prima le marche ci aiutavano a capire chi ci sarebbe piaciuto essere, mentre adesso la scelta del brand è compiuta perché rappresenta chi sono io e i valori a cui faccio riferimento.
È evidente che in questo spirito civile, unito ai processi ESG, tutti devono davvero fare la propria parte.
Quindi anche il marketing e la pubblicità devono, o motivati o costretti, spingere per questa nuova strada del capitalismo.

OVERTOURISM: DOVE ERAVAMO RIMASTI?Il ritorno alla normalità post Covid ci riporta spesso al punto di dove eravamo rimast...
18/04/2023

OVERTOURISM: DOVE ERAVAMO RIMASTI?

Il ritorno alla normalità post Covid ci riporta spesso al punto di dove eravamo rimasti.In ambito turistico, uno dei temi che fino al 2020 mi stavano di più appassionando era l'overtourism, ovvero il sovraffollamento in alcune destinazioni turistiche.
Da qualche anno, infatti, nel turismo si stava combattendo una nuova guerra: quella contro il turismo di massa.
A lottare contro l'overtourism non c'era più solo Venezia.
Anno dopo anno si sono via via moltiplicate le mete europee che hanno tentato di contrastare e regolare l'afflusso di turisti con nuovi divieti, volti a scoraggiare soprattutto il visitatore "mordi e fuggi".
Il fenomeno, molto interessante, in questi giorni sta tornando trend topic.
Nel pre Covid abbiamo assistito a importanti e strani movimenti: vittime della loro stessa popolarità, molte città avevano addirittura smesso di farsi pubblicità.
In quei territori l’obiettivo era (e sta tornando a essere) molto chiaro: costruirsi un'immagine nuova, non più legata al turismo dell'eccesso, ma a quello di qualità, o culturale, con la conseguenza anche di ridare serenità ai residenti, soprattutto quelli dei centri storici.
Mi avevano molto colpito le azioni concrete portate avanti in varie località europee…
Ad Amsterdam, per evitare sovraffollamenti, in primis è stata rimossa la scritta I-AM-STERDAM con le varie lettere separate e disposte in diverse parti della città. Poi sono stati normati i tour in centro con gruppi al massimo di 15 persone e, udite udite, è stato dato lo stop ai tour a luci rosse…
A Dubrovnick è stata praticata una forte riduzione dello sbarco delle navi da crociera, chiuse l'80% delle bancarelle, nessuna autorizzazione all'apertura di nuovi ristoranti in centro, raddoppiata la tassa per gli airb'n'b, imposta una forte limitazione dei bus turistici e una tassa di 5 euro a passeggero…
Alle Baleari aboliti gli happy hour, vietate le modalità "open bar", regolamentata la somministrazione di alcolici nei bar fino alle 21, stabilito il divieto di affitto camere e appartamenti ai turisti nei condomini…
A Barcellona si sono organizzati sia con lo stop totale alla pubblicità, puntando a promuovere gli altri centri della Catalogna, sia con il blocco delle aperture di nuovi hotel in centro.
Queste brevi info, raccolte in varie note sparse, hanno come fonti i vari giornali on line, specializzati e non, nonché gli appunti dai vari convegni a cui ho partecipato (uno dei quali sicuramente organizzato da Teamworks).
Per questioni legate al mio lavoro, ho invece avuto modo di toccare con mano e approfondire le problematiche relative a Sirmione, sul Lago di Garda.
Addirittura nei week-end di bel tempo, al fine di provare a governare i grossi picchi di affluenza, da tempo l'Amministrazione Comunale ha predisposto un senso unico pedonale, ovvero: se vuoi passeggiare attorno all'istmo o nel centro storico, devi per forza procedere nel senso di marcia che ti indicano i vigili urbani… e parliamo di traffico pedonale, non automobilistico.
A Sirmione, in certi picchi primaverili, la concentrazione di escursionisti richiama veramente al concetto di congestione insostenibile.In questi giorni si è discusso molto dell'assalto alle Cinque Terre, territorio a cui sono sentimentalmente legato. Le immagini e i titoloni ci rendono il senso dell'emergenza.
Credo sia abbastanza chiaro quali siano le controindicazioni che genera il fenomeno dell'overtourism.
Lo sto capendo anch'io che sono romagnolo: per noi, l'overtoursim ha un po' il sapore dell'ossimoro.
Il fenomeno da anni ha giustamente generato un dibattito che spesso mette sotto accusa chi ha avuto la miopia di aver buttato in v***a i vari patrimoni storici, paesaggistici, o naturali per ottenere arricchimenti immediati senza alcun tipo di strategia territoriale.
Quindi, al di là di Venezia, Firenze, Roma, ci sono una serie di borghi e isole che, in questa fase di ritorno alla normalità post Covid, più di prima – così sembra – stanno lanciando seri alert.
Vari autorevoli esperti, consulenti e imprenditori, si stanno ponendo la domanda di come valorizzare una risorsa come il turismo senza che questo possa andare a discapito della conservazione del patrimonio culturale, paesaggistico e naturale, nonché della qualità della vita delle popolazioni residenti, che quegli stessi luoghi li abitano per tutto l'anno.
In effetti se un luogo attira visitatori per l'atmosfera intima e delicata che possiede, come si può evitare che il turismo trasformi e banalizzi quell'assetto di così forte appeal?
In una conferenza a cui tempo fa ho partecipato, il Presidente della regione Emilia Romagna Stefano Bonaccini snocciolò una serie di dati importanti e positivi di quanto generassero gli investimenti delle varie Film Commission regionali: d'altronde se mentre guardi una puntata di Montalbano attorno c'è una Sicilia che splende, è gioco facile aspettarsi degli arrivi turistici.
Non sono in possesso di dati, ma in rete non si fa altro che parlare dei benefici che ha ottenuto Taormina grazie a "The White Lotus", la pluripremiata serie HBO in programmazione su Netflix, dove lo splendido scenario della "perla dello Ionio" fa da cornice a una serie di omicidi ambientati in hotel, spiagge, borghi, darsene e mercatini che stanno invogliando potenziali turisti da tutto il mondo.
Quindi da un lato il nostro paese sta investendo in immaginari da esportare, da un altro stiamo acquisendo la consapevolezza che senza un turismo limitato e di qualità (non solo in senso economico), i territori rischiano di deludere le aspettative dei visitatori.Il turismo è veramente materia delicata e da anni ci sta dando delle indicazioni precise.
Chi sta osservando le dinamiche di questo ultimo decennio, ha acquisito la consapevolezza che sta crescendo esponenzialmente la domanda di quei turisti che ambiscono a quelle destinazioni che si caratterizzano come luoghi dove il residente ha sviluppato una elevata qualità della vita, parametrata secondo le nuove scale dei valori.
In più è in atto un fenomeno molto chiaro ed evidente: chi va a farsi un week-end a Madrid, o a Venezia, o a Gubbio, vuole immergersi in quella dimensione. Ovvero: non vuole essere un turista, ma diventare madrileno, veneziano o eugubino per quei 2 giorni.
Questi tuffi nell'autenticità sono un cortocircuito, in quanto a volte quelle experience tanto desiderate, non riesci proprio a viverle.Mentre a Barcellona, Roma, New York, Riccione i grandi flussi fanno parte integrante dell'experience (credo che le Ramblas o la Broadway vuote non interessino a nessuno), altri territori più piccoli e delicati hanno bisogno della loro giusta e autentica dimensione.
E in più c'è un altro scenario da tenere presente: appena sarà terminata l'era di Xi, sicuramente sul mercato si affaccerà un altro miliardo di turisti cinesi (attualmente ce ne solo "solo" 400 milioni ogni anno) a cazzeggiare in giro per il mondo.
L'antropologo Marco Aime, interpellato in una puntata di "Tutta la città ne parla" su RadioTre, ha affermato che il numero chiuso è un male necessario. "Non è solo un problema di affollamento. Dagli studi fatti, un eccesso di turismo porta all'impoverimento e a lungo andare, toglie appetibilità alla destinazione".
Ma qual è la molla che ci costringe a intrupparci verso una destinazione dove vanno tutti? Secondo Aime si tratta di "effetto movida": desideriamo andare dove vanno tutti gli altri, avvertiamo spesso il bisogno di voler esserci.
Ovviamente i social hanno amplificato il successo di alcune destinazioni, ma è anche vero che c'è sempre più gente che si muove.
C'è chi sta parlando di una deriva Disneyland. La conseguenza? La banalizzazione degli spazi e dei luoghi e la gentryfication, grazie alla scellerata gestione delle affittanze brevi.
Eppure il turismo approfondisce la multiculturalità… o non è più così? Oppure porta all'imbruttimento dell'omogeneizzazione?
Secondo Aime, nel turismo manca il tempo affinché avvenga uno scambio. Nulla da dire, la riflessione non è per niente male.
Va bè, però lui è un "filosofo"… invece che ne pensavo gli imprenditori?
Michil Costa, famosissimo albergatore altoatesino, interpellato sempre da "Tutta la città ne parla", è ancora più categorico. "È giusto contingentare le presenze. A nessuno deve essere vietato di ve**re nelle Dolomiti, ma secondo le disposizioni che stabilisce la comunità che ti ospita. D'altronde quando ai concerti i biglietti sono finiti, che fai?". Addirittura ha affermato che, quanto prima, sarà la carbon footprint (l'impronta di emissioni di CO2) a determinare i flussi turistici.
Va bè, lui è un imprenditore illuminato…
E noi romagnoli?
Da noi, dopo dagli anni 90 in poi, non facciamo che rimpiangere l'overtourism che ci caratterizzava. Pensate, io la sera di un Agosto del 1980 avevo pensato di arrivare da Rimini a Riccione con il mio Ciao: all'altezza di Rivazzurra decisi di tornare indietro, in quanto non ce la facevo a passare nel traffico.
Noi siamo nati per giocare un campionato differente: d'altronde è qui che è stato "inventato" il turismo di massa. Ciò non toglie che deve essere sempre il padrone di casa a dettare le regole, sia quelle generali (ossia la buona educazione, l'inclusività e il rispetto per gli altri), sia quelle sartorializzate verso il pubblico a cui si vuole puntare.
Sta di fatto che il sovraffollamento turistico è un argomento su cui devono confrontarsi menti lucide, aperte e competenti. E quanto prima è bene mettere in esecuzione le linee guida che potranno essere definite.
Tutto questo deve assolutamente succedere prima che monti una linea di pensiero per cui il turismo diventi non un'opportunità, ma un male da sopportare.

Baby Gang, un fenomeno sociale che va monitorato.I media questa cosa non la stanno prendendo sotto gamba, anzi. Idem amm...
18/08/2022

Baby Gang, un fenomeno sociale che va monitorato.I media questa cosa non la stanno prendendo sotto gamba, anzi. Idem amministrazioni, Istituzioni e forze dell'ordine.Tutta questa attenzione è assolutamente necessaria, ma forse c'è anche una certa tendenza nei media e nell'opinione pubblica nel catalogare come Baby Gang anche fatti che non appartengono a questo ambito, con la conseguenza di generare ulteriori risvolti negativi.Sappiamo che nel proprio percorso identitario i giovani ambiscono ad avere un ruolo a tutti i costi.I social sono lo specchio di quanto siamo disposti a essere idioti pur di non rimanere ignoti.Ed è facile cogliere l'assurdità di come spesso sia addirittura un ruolo nella malavita a dare un senso all'esistenza di molte persone, soprattutto giovani.Il libro "Zero, zero, zero" di Roberto Saviano, uscito anni fa, ha puntato l'attenzione al tema dell'epica nella malavita, raccontandoci di come le gang sudamericane legate al narcotraffico (soprattutto messicane) abbiamo saputo costruirsi una narrazione epica di forte consenso popolare, creando un fortissimo senso di orgoglio interno.Quindi: codici di onore, linguaggi dei gesti, tatuaggi, segni di lotta, ovvero riti e segni che poggiano su valori di ben poco spessore, nonché di pessimo credo, tuttavia elementi utili al fine di produrre un racconto eroico e mitico della proprio esistenza.Da qui mi collego all'appello di fare attenzione a definire Baby Gang ogni azione delinquenziale giovanile: si rischia di dare un ruolo, un senso di appartenenza a chi è semplicemente uno "scappato di casa".È noto: l'estetica delinquenziale "paga".Lo vediamo nella musica, nella comunicazione di un certo abbigliamento "urban", negli eroi e anti eroi della strada che il cinema esalta.Non ricordo dove l'ho letto, ma oggi, nella narrazione, la lotta non è più tra buoni e cattivi, ma solo tra cattivi… oppure tra i tanto cattivi e i meno cattivi: ossia il male contro il peggio.Il mito delle Baby Gang di Città del Messico, Buenos Aires, Guatemala City, nonché Detroit, le banlieu parigine, i quartieri di Napoli, etc sono riferimenti estetici sempre più saccheggiati.Criminalità e microcriminalità organizzata giovanile esistono eccome… ma se a tutti i giovani che delinquono diamo a prescindere la patente di appartenere a una Baby Gang, o addirittura di esserne un leader o una leader, rischiamo di generare un disperato orgoglio, figlio del disagio e della nostra maledetta disattenzione.

*La banalità salverà il mondo.*La guerra e la pandemia stanno contribuendo a restituirci un'idea antica della morte.Da m...
10/03/2022

*La banalità salverà il mondo.*

La guerra e la pandemia stanno contribuendo a restituirci un'idea antica della morte.
Da molti decenni il benessere, le più allungate aspettative di vita e la tecnologia hanno fatto sì che le paure quotidiane risultassero altre, quali l'invecchiamento, l'imperfezione fisica, l'inadeguatezza sociale e soprattutto la paura di condurre un'esistenza incompiuta, inadeguata, non all'altezza.
Quindi le problematiche legate alla frustrazione hanno, in noi essere umani moderni, rubato il trono alla morte e alla fame.
Questo concetto l'ha bene espresso Riccardo Falcinelli, uno dei più apprezzati visual designer.
Le sue considerazioni sul tema dell'identità sono veramente interessanti.
In altre epoche, nelle relazioni umane contavano soprattutto le pratiche, quindi i ruoli, e non le identità. Un re era un re perché svolgeva quel ruolo. Idem un contadino.
Oggi i nostri sforzi vanno nella direzione di far coincidere quello che vogliamo essere con quello che non riusciamo a fare e a diventare.
Quindi spesso viviamo di apparenza.
Tutto questo succede perché ci impaurisce la banalità.
Ci teniamo troppo a essere unici e speciali.
Ma cos'è la banalità?
Stefano Bartezzaghi, il semiologo, le ha dedicato un libro: una figata.
Il termine banalità viene dalla radice "ban" che significa villaggio.
Banale quindi era ciò che tutto il villaggio già sapeva.
Per me, la banalità acquisisce un fascino enorme nel momento che diventa strumento di unicità.
Essere banali in un mondo di fenomeni può produrre esiti molto interessanti e piacevoli.
Bartezzaghi è illuminante quando racconta di Papa Francesco e della sua prima apparizione dalla finestra di Piazza San Pietro.
Ricordate quale fu la prima parola che disse?
È stato fantastico: disse "Buonasera".
Semplicemente Buonasera, accompagnato da una pausa.
Ci può essere qualcosa di più banale?
Eppure…
Quel buonasera ha immediatamente posizionato il personaggio.
E con il tempo, ogni suo gesto ha mostrato una straordinaria coerenza verso la semplicità (quelli bravi direbbero orizzontalità) di quel saluto.
Sempre in merito all'identità, ho un'altra sollecitazione.
Ne La Grande Bellezza, Sorrentino ci ha regalato diversi colpi di genio. Uno di questi è stato contestualizzare la clinica estetica come un luogo di culto religioso, dove i demoni dell'invecchiamento e dell'inadeguatezza estetica venivano esorcizzati dal grande chirurgo, un immenso Massimo Popolizio.
In quelle scene, è parso evidente come l'identità non sia qualcosa che si fa o si è, ma è qualcosa che si consuma.
Sempre citando Falcinelli, addirittura il sesso è strumento del "si è" a discapito del "si fa".
Insomma, ci nutriamo di identità, ogni giorno compriamo identità.
Facciamoci caso: ogni volta che vediamo un amico cinquantenne con un nuovo "atteggiamento trasandato sul selvaggio", spesso la causa è la sua nuova Harley Davidson: dal momento che ha acquistato quella merce, ha assunto l'identità dell'Harleysta.
Sto banalizzando? Certamente.
La moda questi meccanismi li ha colti molto bene.
Ad esempio, la moda dei ragazzi che indossano i pantaloni senza cintura che scendono mostrando le mutande, sono l'effetto di una necessità identitaria.
Il conformismo di mostrarsi disobbedienti, trova nei carcerati un simbolo di ribellione.
I carcerati, come noto, non possono indossare la cintura, quindi mostrarsi con i pantaloni calati significa lanciare il segnale che si appartiene a quel mondo lì. Quindi attenzione: vestito così ti comunico che sono ribelle e cattivo… e io ho bisogno di essere ribelle e cattivo: non vorrai mica che mi limiti a essere banale?
Idem per i tatuaggi.
Non c'è niente da fare: l'identità è prodotto.
E come spesso accade, sono le merci a salvarci la vita.

Zitti e... Boomers.Una riflessione su Boomer, il nuovo "insulto".Per chi ha la mia età, essere additati come Boomers non...
01/03/2022

Zitti e... Boomers.
Una riflessione su Boomer, il nuovo "insulto".

Per chi ha la mia età, essere additati come Boomers non può essere una bella cosa… soprattutto se si svolge un lavoro come il mio.
È in uso da parte dei giovani della Zeta Generation l’espressione “Ok Boomer” per zittire genitori e persone sopra gli “anta”, più precisamente quegli adulti che non sono aggiornati, anche se credono di esserlo.
Sembra che tutto sia iniziato in Nuova Zelanda grazie alla deputata Chlöe Charlotte Swarbrick, venticinquenne, che durante il suo intervento in aula, infastidita da un suo collega più anziano che borbottando la interrompeva, ha fatto un cenno di stop con la mano esclamando velocemente “ok Boomer”… e così è riuscita a zittirlo e a continuare il suo discorso.
L’episodio lo cita Nan Coosemans, Family Coach, Youth Trainer e fondatrice di Younite.
L’ossessione di essere sempre sul pezzo, d’altronde fa parte della mia generazione, quella appunto dei Baby Boomers, quei fortunati nati dal 1946 e il 1964 (altre fonti indicano il 1960).
Finalmente con “ok Boomer” c’è un’offesa che ci mette in riga, che ci fa sentire distanti, che ci rassegna all’evidenza che esiste (eccome se esiste) lo stacco generazionale.
È inutile avere un Mac, l’iPhone aggiornato, utilizzare car sharing, mangiare consapevole, etc.
Era ora.
Però dai, concedetecelo: ce l’abbiamo messa tutta a non mollare.
Ma forse, più che tutta, ce l’abbiamo messa troppo… e continuiamo a mettercela tanto.
A evidenziarlo, c’è il fenomeno delle Perennials.
L’ultima edizione di San Remo ce l’ha mostrato ben bene, grazie alla presenza di Ornella Muti.
L’Ornella nazionale non si è atteggiata né da m**f, né da cougar, né tantomeno da gilf (ci mancherebbe altro). Il suo orgoglio di eterna giovinezza, che le ha permesso di esibire uno spacco gamba mozzafiato, nasce quella intraprendenza identitaria che non so chi (un genio!) ha chiamato Perennial.
E questo è accaduto nello stesso Festival dove i Morandi, Ranieri e Zanicchi hanno mostrato la loro eterna energia, ma con un atteggiamento (quelli bravi direbbero tone-of-voice) assai differente: cauto, consapevole, autoironico.
Osservando le Perennials (e i Perennials), c’è da chiedersi dove si colloca la soglia del ridicolo.
E qui non parliamo solo in riferimento ai Boomers.
Nei media, compresi i nuovi media, quella fatidica soglia del ridicolo viene elusa da ogni categoria generazionale.
I dispensatori di morale hanno buon gioco a sentenziare l’epidemica mancanza di maturità, su tutti i fronti generazionali, per cui i giovani danno segnali di infantilismo, mentre gli adulti si comportano come adolescenti.
Mentre i bambini? Beh, loro bruciano le tappe… in maniera troppo veloce e (ci dicono gli esperti) in maniera sempre più preoccupante.
C’è qualcosa che non va? Sì, ma questo da sempre. Almeno da quando è iniziato il consumismo.
In questo scenario, mi permetto di lanciare un messaggio di solidarietà a quei poveri analisti del marketing, a cui spetta l’arduo compito di intercettare sempre nuovi Buyer Personas.
Facciamo un esempio…
Laureato, professionista, eterosessuale, single divorziato, quarantottenne, una figlia tredicenne, amante della mountain bike, frequentatore di cliniche estetiche, tifoso ultras (solo quando gioca in casa), divoratore di fantascienza, vegano, attualmente iscritto a un corso per creator/influencer.
Immaginate il casino!
Non ci resta che stare zitti e buoni: è un mondo difficile.

Indirizzo

Rimini
47923

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