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15/06/2024
05/05/2024

Giuseppe De Pietro: «Ancora non so chi sono, debbo scoprirlo»

Oggi, all'età di 80 anni, Giuseppe De Pietro si trova a vivere uno dei momenti più creativi della propria carriera, consumato dalle sfide e dalle opportunità di tutto quanto gli resta da fare nel settore della fotografia ed il giornalismo



Giuseppe De Pietro

di Principessa Orietta Boncompagni Ludovisi

29 settembre 2020

Per anni Giuseppe De Pietro si è chiesto: cosa succede quando sarò vecchio? Da ragazzo ho sofferto qualche volta di asma, e in questi ultimi anni dopo i vaccini covid ha peggiorato, in questi due anni di pandemia, ha trascorso varie volte in ospedale con i polmoni compromessi. La morte è sempre stata uno spettro imminente e lo penso quotidianamente, e si vede, caratterizzati dalla vita appartata che conduco da due anni, non più come prima, tra serate mondane, vernissage, presentazioni di film, sfilate di moda e spettacoli di teatro. La sua domanda ricorrente, però, non riguardava di preciso il momento del trapasso. Si preoccupava di come avrebbe vissuto da anziano. Che lavoro avrebbe potuto fare? Si interrogava. Avrebbe mantenuto la propria capacità di realizzare dei reportage di viaggi significative e importanti?
«Non faccio parte di quella comunità giornalistica che è diventata un business», ha detto De Pietro del suo rapporto con gli editori. «Non mi sento in sintonia con loro… Mi faccio solo gli affari miei» A gennaio De Pietro compirà 80 anni. Dal suo esordio, nel 1961 con uno dei primi reportage della visita in Argentina del Presidente italiano On. Giovanni Gronchi. Ha affrontato viaggi di avventura, in buona parte nel Sud e Centro America, il viaggio in Italia, ed alcune sconfitte. Ha realizzato tanti bei reportage e personaggi famosi da non poterli elencare tutti e da lasciarci stupiti anche solo davanti a un elenco parziale: Edith Piaff al Teatro dell’Opera a Buenos Aires. Anna Magnani al Festival del Cinema di Mar del Plata, Vittorio Gassman al Teatro Colosseo a Buenos Aires. Il viaggio in Patagonia, Jujuy in Argentina, in Perù, Brasile, Colombia, Messico, Chile, Costa Rica.
Un argomento divertente a tavola durante una cena potrebbe partire dalla domanda: De Pietro ha realizzato ottimi reportages in ogni decennio a partire dagli anni '70, ritornano in Italia? Probabilmente non sempre è stato “tutto rose”, forse, negli ultimi due decenni del secolo scorso. Comunque, nella sua testa, resta la preoccupazione per il proprio talento e la capacità di durare nel tempo: «Mi sono sempre chiesto se avrebbe resistito al passare degli anni, oppure fosse destinato a esaurirsi. Il mio stile fotografico e di giornalista si sarebbe evoluto? Avrei continuato a fare lo stesso genere di reportages? Ripetersi è un difetto o una virtù?».
De Pietro non ha ancora finito di scrivere la sua storia artistica che dura da sessanta stupendi decenni. Ora ha capito una cosa sull’invecchiamento: è un processo inesorabile di riduzione. Invecchiare significa saper lasciare andare, accetti solo l’autenticità nelle persone, quelli falsi li allontani. La rabbia, per esempio: «Ho raggiunto l'età in cui se ti arrabbi troppo, ti uccidi». La vecchiaia è rinunciare al desiderio di frequentare ambienti prestigiosi, come al ristorante o il bar dove frequentavo una volta sia stando in Brasile che a Buenos Aires, oppure in Italia frequentando dalle persone importanti.
Non farti condizionare dagli altri: «Ciò non significa ignorare i suggerimenti ed evitare le discussioni, ma alla fine devi seguire la tua visione. E non puoi fare diversamente». Rinunciare al sogno di andare a realizzare un reportage fotografico ed articolo?». Non farsi influenzare dagli Editori e non pensare di appartenere a Roma soltanto: «Tanto non è il mio posto». Non fare gli esperimenti solo per il gusto di provare. «Sono cose che ho fatto in passato. Ora è diverso». Non dipendere dal sistema affaristico delle Case Editrici: «Credevo di essere parte di un gruppo venendo a Roma. Mi sbagliavo». Non illudersi, che è forse la cosa più dura da fare. Rendere le proprie fotografie una pura espressione di sé stessa: «Taglia l’articolo, seleziona le foto, eliminando il superfluo e liberati dalle aspettative altrui».
L’altro giorno, De Pietro alla sua scrivania, davanti Al suo Mac, tutto d’un fiato, esaminava alcuni dei suoi articoli e foto pubblicani su riviste italiane ed estere, mentre pensava queste erano sfide anche per me che le ho realizzato. De Pietro non ha molto tempo libero ultimamente, ha la mente ingombra, e deve fare i conti con tante preoccupazioni che lo assillano ogni giorno. «Avevo tante cose per la testa», ha confessato. «Ormai sono avanti con gli anni, e ho problemi familiari e altre cose da risolvere. E dovevo vedere tutto il mio libro “Nicotera, una volta”, per verificare il testo e le foto dell’epoca. Mi ci sarebbe voluto tanto tempo. Come avrei fatto? Sarei riuscito a concentrarmi?».Ha premuto il tasto play sul Mac. «Appena è iniziato dalle prime pagine , io... l'ho guardato». “Nicotera, una volta” è un libro lungo che parla della civiltà contadina negli anni cinquanta in un borgo antico della Calabria amore, fatica e famiglia. Mio padre Salvatore lascia la campagna per emigrare in Argentina. Il benessere in quei anni, a partire degli anni ’50 lo ha reso tra i più fortunati, almeno sulla carta. Nel corso del tempo, mio padre ci fa congiungere a Buenos Aires a me e mia madre Francesca. La nuova situazione per mia madre soprattutto che non risparmia nostalgia, tristezza, rabbia e anche qualche risata con uno stile tipico di De Pietro che si sentiva appassionato ed appagato. Ancora una volta, ha scongiurato qualsiasi forma di noia o appannamento lungo il percorso. «Non so come sia successo», ha detto. «Sono passati circa sei anni dal 1949 e lavorando, vendendo frutta con il carretto per strada c'è qualcosa che mi ha conquistato… mi piace»
De Pietro ha idea di buttarsi all’arte, cerca in un annuncio sul giornale la richiesta di un apprendista fotografo. Mi reco con mio padre all’interno di un edificio nel centro, in Calle Bartolomè Mitre, nelle vicinanze di Avveniva Nueve de Julio, dove il corridoio è tappezzato di foto di personaggi dell’epoca e Marina, la figlia di Carlo Biaghetti lavora in un silenzio assoluto. Quel giorno di domenica, mentre ero seduto in salotto dell'ufficio in attesa dell'arrivo del titolare, una donna anziana dai capelli bianchi si è avvicinata per versarsi del tè freddo dal frigorifero. Era la moglie di Bianchetti. Ha sorriso, si è presentata e poi è tornata nello studio fotografico. Alla parete era appeso il poster di Marlon Brando di quando era stato a Buenos Aires.
De Pietro da ragazzo, racconta, «andava con i suoi amici a vedere dei film era il desiderio di sentirlo più come arte che come divertimento. Nasceva anche da un senso di spirito allegro, tuttora vivo»
Nella sua casa di Calle Alberti, dietro di lui, attraverso la finestra, si stagliava il Quartiere Barbanera con le auto che ogni tanto, attraversavano in quella via.
Carlo Biaghetti è arrivato di corsa e si è presentato con indosso una giacca blu e degli occhiali da sole davvero enormi. Non era in forma. «Mi hanno telefonato da Milano per confermarmi la pubblicazione di alcuni articoli alla Mondadori», ha spiegato. «È stata una bella notizia. Debbo ancora mandare altri reportages recenti che ho fatto». Ci siamo seduti nel suo ufficio. Indossava una camicia bianca, pantaloni e mocassini marroni. Anche in condizioni di estremo disagio, è un uomo... vivace. Ha trascorso la maggior parte della nostra prima conversazione in piedi; a un certo punto, è balzato così improvvisamente dal divano che mi sono alzato anch'io. «Dove stai andando?», mi ha chiesto, con aria sinceramente confusa. Rimani; da domani farai parte della nostra agenzia Argentina Press, inizierai lavorando con Paolo che lavora principalmente nel laboratorio di sviluppo e stampa e poi farai da assistente a me, o a lui, durante qualche reportage”.
Sono seguiti alcuni anni in cui la concentrazione e la purezza del suo lavoro si è affievolita. Un periodo, nelle parole di De Pietro, in cui «mi sono fatto condizionare. Sapevo di essermi sentito a mio agio solo quando ho realizzato quel reportage al cantante lirico Mario del Monaco al Teatro Colòn di Buenos Aires pubblicato poi sul “The New York Times” . Non mi importava cosa avrebbero detto, sai? Poi i miei colleghi mi hanno apprezzato per il successo. Il Presidente Giovanni Gronchi in vista a Buenos Aires che ho seguito nei cinque giorni, fino a un certo punto, anche un libro sul tema. Ancora una volta, non me lo aspettavo, ma dopo cominciai a preoccuparmi di cosa avrebbero pensato i colleghi e di cosa avrei dovuto fare. E non funzionò. In definitiva, il problema in cui sono caduto e la debolezza è stata quella di avere cercato di cambiare il mio modo di realizzare le fotografie, ma ci sono riuscito solo in parte.».
È diffusa la falsa idea che De Pietro stia sempre isolato a scrivere o guardare foto chiuso in casa, dove conduce un'esperienza di vita solo di seconda mano. Non è esattamente così: «E se invece facessi tante esperienze? E se non fossero un affare degli altri?». Eppure, è una reputazione che gli si addice e ha un fondo di verità nella sua infanzia isolata. «Guardare le foto è un'esigenza dovuta nell’amare le cose che contano, quelle autentiche», mi ha spiegato. «Nasceva anche da un senso di solitudine, tuttora vivo, legato a mio padre e a mia madre. Non ho mai vissuto una vita finta. Così andavo al cinema con i miei amici o la mia ragazza».
Ritornando in Italia, inizialmente dopo aver preso parte in tre film come fotografo di scena, conosce sua moglie è sostanzialmente cresciuta nella Roma di via Merulana:. «Mi piacerebbe magari, tornarci a Parigi», ha detto. «Ma sai, ci sono stato spesso». Buenos Aires? «La maggior parte dei miei parenti mi amano, anche se qualcuno non c'è più», ha osservato. «Tanti figli dei miei parenti, tante persone nuove, mi vedevano più per forma che per un vero affetto di amicizia o parentela. Buenos Aires è una città del tutto cambiata, con una nuova veste. Però, alcuni posti non riuscivo a frequentarle. Tranne quando sono stato a San Telmo». Era il luogo dove mio padre con il carretto vendeva frutta e verdura in Calle Lima ed Independencia, all’epoca correvano gli anni sessanta.
De Pietro è notoriamente un chiacchierone anche se qualche volta gli piace stare da solo. Forse, è un retaggio della sua infanzia, vissuta in campagna nella sua Calabria. «Sono cresciuto tra i vigneti agrumeti ed uliveti», ha ricordato. «Sembrava di essere in un quadro di Ligabue». Ancora oggi le sue foto riescono a racchiudere una quantità sorprendente di vita: uomini che ancora sono sensibili alla vita contadina; la sua macchina Leica che scivola sulla natura, sull’ambiente, sulla vita semplice comparse in tanti dei suoi servizi fotografici; Un provino per Play Boy, una modella che cammina nella frenetica distesa della campagna laziale è pieno di inquadrature dove si intravedono paesaggi di alberi e fiori, a mettere in scena la sua esistenza, tra piatte di frutta ancora in fiore. La prospettiva è, per molti versi, quella di un’osservatrice esterna che contempla una vita che fiorisce.
De Pietro si sente ancora solo. Oggi conduce una vita familiare felice. Sua moglie, Clara Racanelli, vive per me e con me da anni. «A casa non sto solo al Mac, ho altre responsabilità; la spesa al mercato, la cucina», ha raccontato De Pietro. «Ho pochi amici che mi sostengono e mi accettano così come sono. Non faccio più vita sociale come una volta. Mi dedico solo a seguire la mia rivista web: “Suntime Magazine”, anche se non mi porta alcun guadagno».
Oggi, quando incontra qualcuno che conosce, gli addii assumono un nuovo significato. «Ho rivisto una vecchia amica qualche settimana fa, proprio qui; mio Dio, ci conosciamo dal 1970. Non la vedevo da anni. Al momento di andarsene, ci siamo abbracciati e stretti l'uno all'altro per circa qualche minuto, senza sapere se ci saremmo rivisti. Non potevamo aggiungere altro. Però è una buona cosa. Si è ristretto il cerchio».
De Pietro non ama viaggiare più come lo faceva un tempo, prendeva aerei con si prendevano aquiloni oggi non vola più, teme per la sua salute. Per farlo spostare devi offrirgli chissà un luogo non visto prima, o dargli una buona ragione. «Preferisco stare a casa mia», ha ammesso. «Se mi vuoi incontrare, devi ve**re tu da me…».
Ha un figlio Valentino e due nipoti Leonardo e Flavio. «Mi piacerebbe stare di più con loro e Leonardo, più grande tante volte ha delle cose da insegnarmi. La musica ad esempio. Ma qual è il mio posto nel mondo?». La sua risposta è semplice: la fotografia. «Mi appassiono alle immagini che creo e al modo in cui le creo», mi confida. Da giovane, ha realizzato nel giro di pochi anni anche alcuni capolavori pubblicati su riviste italiane ed estere. Poi ha attraversato una fase come direttore di giornali, che mi ha portato grandi soddisfazioni. «Quando ho diretto la rivista “Happenimg in Italy”, il vice direttore Dianne Copelon venne a stare da me, nel mio ufficio e ci siamo divertiti.».
De Pietro era curioso di capire meglio come nasceva una rivista mensile che andava in edicola. Da dove scaturiva? «Volevo comprendere quale fosse la magia», ha detto. «In fondo, però, c'è anche uno stile di vita che va di pari passo. Gran parte del quale è legato alle feste mondane con i personaggi del momento che conosceva alla “prima”, nei Festival cinematografici o nella casa del personaggio. Avvolte le le serate mondane mi sono sfuggite di mano, perché non sapevo come controllarle, non pausavano serate che non fossi invitato a qualcuna. Però avevo lo stesso l’impulso di andarci. Desideravo andare in profondità. Volevo vedere dove sarei finito. Per fortuna sono sopravvissuto».
A 80 anni la sensazione è la stessa che si provava a 25 o 35 anni? No, ha precisato De Pietro. Per niente. È completamente diverso. «A partire dalla semplice esperienza di avere 80 anni», ha detto De Pietro. «La vita e la famiglia sono un’esperienza diversa rispetto ai miei primi anni. La situazione familiare è cambiata. Ho avuto un figlio che mi è rimasto il rimorso di non averlo seguito abbastanza, una colpa che ancora mi fa sentire mia moglie Clara, ma non si accorgeva che io avevo creato un’attività dentro la nostra stessa casa».
Il matrimonio di De Pietro con Clara Racanelli è il loro figlio Valentino, ha da poco compiuto 43 anni. Prima di allora, ha detto De Pietro, «i miei primi mesi di matrimonio non andava a gonfie vele. Si è creata una frattura, ora siamo molto uniti, ma mi sono mancati... mi sono mancati quei momenti. Sono caduto io, non loro. Inoltre, la tua famiglia d'origine si è estinta: i miei genitori, mia suocera, praticamente tutti i parenti prossimi. Sono rimasti, forse, cugini e figli di questi che a malapena si ricordano di me. Era una famiglia in cui mia madre aveva sette fratelli e sorelle, mio padre otto e a cui si aggiungevano tutti i loro figli. Non c'è più niente. È tutto finito. Sembra di vedere il finale di un film. Dopo, dall'altra parte del fiume sorgono nuovi palazzi e noi dimentichiamo le storie di quelle persone e i loro problemi».
Tutti quelli che hai conosciuto e amato «hanno sofferto e lottato così tanto, e poi la vita è finita», ha ribadito De Pietro. «Arrivi al punto di chiederti: ‘Beh, che senso ha?’ Non importa cosa significhi. Devi viverlo. Se non vuoi accettarlo devi rifiutarti di vivere, dipende da te. Tu, però, esisti e vivi quest’unica esistenza. Perciò credo che una cosa sia cambiata. Non voglio più prendere la macchina fotografica Leica se non mi va. Non lo faccio. Non mi interessa. Non mi interessa più».
In realtà, perché me l'ha comunicato? De Pietro ha un modo tutto suo di trattare un argomento nei suoi articoli. A volte lo fa a una velocità tale da dovere ripetere le cose due o tre volte. Si perde in mille riflessioni. Che riguardava...? Ah, sì. Un reportage deve essere lineare? De Pietro ha detto di essere sempre stato allergico a partire dall'inizio e a proseguire da lì. «Non sopporto il racconto lineare», ha sentenziato. Naturalmente, alcuni giornalisti che lui rispetta riuscivano a farlo bene. «Li ammiro, ma mi rendo conto di non essere uno di loro», ha precisato. È diventato maggiorenne grazie a un altro tipo di fotografia, «in grado di farti capire che si poteva ricominciare da capo e reinventare il reportage». Come Terzani! «Terzani lo ha fatto davvero ridisegnando, o cercando di ridefinire, la grammatica stessa del racconto», ha spiegato. «Ha fatto degli articoli in cui non succedeva niente. Non dico che siano capolavori. Sono provocazioni che ci fanno ripensare a cosa sia il giornalismo».
Hmm, dove eravamo rimasti? Ah, sì, stava parlando di come i reportage possano essere costruiti o destrutturati a partire da quelli che hanno la forma ellittica ed episodica di molti altri suoi lavori. Meno narrazione, maggiore atmosfera, più informazioni attraverso l'aneddoto, la scena, il personaggio. «Ciò che speravo di ottenere senza avere un’intenzione precisa, non l'ho espresso a parole, ma appena ho iniziato a fotografare sentivo di viverci dentro l’articolo di viaggio», ha detto De Pietro. «Vivevo lì ed ero con loro, alla deriva e immerso in quel mondo. Per questo voglio che il lettore, quando sarà a metà articolo, si domandi: ‘Aspetta un attimo, con che tipo di persone mi trovo?’».�Che genere di individui abbiamo di fronte? Donne normali, tribù malvagi, nell’articolo di De Pietro, diventa quasi una storia di amore, potere, tradimento e supremazia bianca. Si tratta di una comunità di bianchi arrivata nella terra di qualcun altro che poi si mette sistematicamente a depredare quanto può, spesso con la violenza. «Non si trattava di una o due persone», ha precisato De Pietro. «Ho percepito che ognuno di loro era così. Allora mi sono detto: ‘Beh, se sono tutti, allora lo siamo anche noi’. In altre parole, noi italiani siamo complici». De Pietro si è immaginato nella stessa situazione: «Cosa fare? Mi allontanerei? Farei finta di non avere visto nulla?».
De Pietro ha avuto una carriera con tanti successi dei suoi articoli e foto, ma non si è mai adattato bene al sistema tradizionale della stampa italiana, dove ha sempre faticato a trovare i contatti per realizzare i suoi reportages. Anche quando i servizi andavano bene, spesso non era abbastanza. «Ricordo che una volta mi dissero, qualcosa del tipo: ‘Con quel servizio fotografico ci facciamo poco «Ho capito che per realizzarlo come voleva il capo redattore sarei dovuto rimanere un mese in Tunisia», ha detto De Pietro. «Se fosse stato l'unico modo in cui potevo permettermi di continuare, allora avrei preferito smettere. Perché i risultati non erano soddisfacenti. A volte era estremamente difficile, e non sarei sopravvissuto. Sarei morto. Così ho deciso che era finita, davvero».Allora pensai: ‘Taci e lavora’. Non puoi fare un reportage e poi vedertelo pubblicato su grandi riviste internazionali sempre. Certo, mi avrebbe fatto piacere, ma cosa cambia? Dovevo continuare a fare reportages fotografici ed articoli». Oggi si sente ancora estraneo e incompreso dalle case editrici italiane. «Non faccio parte di quella comunità che è un’industria. Non mi sento in sintonia con loro… Mi faccio solo gli affari miei».
In tal senso, racconta l’Italia, o altri paesi così come fanno nel narrare la storia di un popolo che ha plasmato il secolo scorso, e nel dipingere una certa forma di avidità sfrenata e di reinvenzione di sé. Questo stile di scrittura si ritrova in tutti gli articoli e foto di De Pietro, a partire dagli anni settanta, da lui definito una rappresentazione del sogno “partiamo per l’America”: «Farsi una nuova vita velocemente con ogni mezzo necessario».
Da dove nasce la sua attenzione per l’Italia? In realtà, si tratta di un discorso a sé. «Ti spiego: tutto risale alla mia educazione cattolica a Nicotera e dal frequentare la scuola cattolica». De Pietro era un bambino preciso e l’unica cosa che faceva era andare a scuola sempre tra i primi. «Io invece mi legai agli amici di scuola. Ma il punto voglio dire, è come mi influenzava quello che veniva detto lì dentro. Con le suore, in particolare una che fu mia mentore, Suora Teresa». Nessuno dei suoi compagni di classe di quegli anni è diventato Giuseppe De Pietro, e lui non si è mai fatto prete, ma non importa. «Sono qui», ha detto sorridendo.
Una singolare curiosità su Giuseppe De Pietro è che non si diverte a fare foto. «Non sto scherzando», ha affermato, «il problema è che avvolte bisogna affrontare grandi personaggi e la mia timidezza quasi ne lo impedisce». Il fotografo ha mai amato la mattina. Per gran parte della sua vita, racconta, «ho passato le notti a guardare foto, film in tv o a leggere, a fare i o a scrivere articoli. Vivevo di notte, a piedi per le strade di Roma, e non vedevo mai la luce ritornando nei pressi del Colosseo dove abitavo. Ci ho messo anni a capire dove sorgeva e dove tramontava il sole. Non lo sapevo davvero. L’ho scoperto In Africa. Quando arrivi a Marakesh , alle sette di sera mentre il sole stava calando, lo vedi proprio lì».
Ama ripetere una frase di un’attore scomparso «Gli chiedevano: Qual è la cosa più difficile dell’attore?’ Lui rispondeva: ‘Scendere dall’automobile'. Perché una volta scesi, devi iniziare a fare le domande al personaggio». Mentre, quando De Pietro scende dall’auto al mattino, guarda nella sua agenda del Mac e dice: «A cosa devo rinunciare oggi?».�Eppure continua a lavorare. Alcuni articoli sono anche di questi giorni della Maremma toscana. «Innanzitutto, mi hanno portato in giro e ho ammirato le praterie aperte con le mucche chianine e i cavalli selvaggi. Erano magici, fantastici, destrieri bradi lanciati al pascolo. Era come ritrovarsi negli antichi Campi Elisi della mitologia greca». Faceva anche caldo e c’erano continue tempeste.
Cosa credi sia cambiato nell'editoria oggi, tanto che un giornalista talentuoso e impegnato come te non riesce a fare le foto e gli articoli che vuole? «Beh, l’editoria cartacea è finita», ha risposto De Pietro. «In altre parole, il giornalismo di cui facevo parte è cambiata, stiamo parlando di quasi, quanto, 50 anni fa? È come chiedere a qualcuno che nel 1970 faceva fotografie senza allegare l’articolo: cosa pensi sia successo?». Naturalmente, il giornalista ha le sue idee al riguardo. Gli editori, ha affermato, non sono «più interessati a sostenere voci individuali che esprimono sentimenti o idee personali con reportages pagate bene come un tempo. Ora le relegano in una nicchia che chiamano giornalisti d’autore».
De Pietro oggi viene spesso rappresentato come un difensore retrogrado, un nostalgico del passato, in parte a causa del suo impegno nella “De Pietro Press International Photos”, un’agenzia fotogiornalistica da lui fondata nel 1970, che collaborava con editori di quaranta nazioni diversi che ha contribuito a realizzare migliaia di fotografie, la questione però non è affatto così semplice. A essere precisi non ritiene affatto che le case editrici stiano morendo. «Credo che il giornalismo resterà, perché la gente vuole condividere quest’esperienza», ha sostenuto De Pietro. «Ma le testate devono migliorare per attirare i lettori e farla divertire o emozionare».�Ho suggerito a De Pietro che le case editrici potrebbero limitarsi a pubblicare reportage veri, e proprio qui potrebbe risiedere il problema: se gli editori producono solo se richiamano la vendita, e una parte dei lettori non li apprezza, allora non comprerà ormai più riviste. Mi sento in colpa per avere toccato l’argomento, dato che i commenti scettici di De Pietro in passato hanno attirato un sacco di vetriolo, e... ora sto attirando altre polemiche su Giuseppe De Pietro. Per favore, prendetevela con me e non con lui.
Di nuovo, non c’è bisogno che tu lo ripeta. «No, meglio non ripeterlo, ma il mio pensiero è che si tratta di contenuti artificiali. Sembrano quasi fotografie con l’intervento dell’intelligenza artificiale. Questo non significa che non ci siano giornalisti incredibili ed esperti in grado di realizzare splendide fotografie da considerarsi opere d'arte. Però qual è il senso? Cosa ti lasciano queste fotografie? Oltre a soddisfare una voglia momentanea e poi svanire dalla mente e dal tuo corpo, capisci? In sostanza, cosa ti stanno offrendo?». «Non vedo l'ora di esplorare nuove strade e mi auguro che ci siano sempre delle innovazioni», ha aggiunto. «È solo che io sono arrivato fin qui. Questo è il mio piccolo mondo dell’informazione. Nient’altro. E se avrò ancora la forza, se Dio mi aiuta, creerò al massimo un altra testata, forse due, dopo “Suntime” di viaggi, natura, ambiente, nata 24 anni fa, e poi vorrei portare avanti “Egoista” una testa giornalistica per chi non “deve chiedere mai” e poi basta, va bene? Non posso andare oltre. Vai avanti finché puoi. Ma devi tirarlo fuori dalla tua testa e dal tuo cuore… Per scoprire cosa diavolo... cosa senti davvero di dover dire a questo punto della vita. Un giornale, se pure sul web, deve comunicare qualcosa. Altrimenti che senso ha farlo? Devi dire qualcosa».
Durante la maggior parte dei giorni, De Pietro passa il tempo nella sua casa di Roma, vicino via Nomentana, al primo piano, in un piccolo e disordinato studio in un angolo della casa. «È qui che scrivo gli articoli», mi ha detto durante un pomeriggio di quest’estate. All’estero, un enorme parco dove in estate raccoglie le more insieme a suo nipote Leonardo. Nell’angolo del suo studio, De Pietro era in calzini blu e senza scarpe. La stanza era con tanti quadri del passato. Il guardaroba era proprio accanto pieno di cravatte, vestiti e camicie d’inverno e d’estate. La pallida luce pomeridiana che filtrava dalla finestra creava un alone intorno ai suoi capelli ancora in parte scuri. Di fianco, su un tavolino, c'era una pila di fogli bianchi sciolti. «Sto cercando di annotare ciò che faccio ogni giorno», ha spiegato De Pietro. «Quando comprendi che devi lasciarti andare e la morte è vicina, tutto cambia», ha detto. «Il tempo è una risorsa preziosa» Lo fa dal 2015. In parte è una terapia, in parte un diario di bordo che intende bruciare prima della fine. (Più tardi mi ha riferito di avere cambiato idea: avrebbe conservato quelle pagine). Un'ossessione fra le tante per De Pietro è l'autoinganno. È un tema ricorrente nel suo lavoro: «Tutti i miei articolo parlano di amore e di positività e la fiducia». Perché è importante? «Ha a che fare con il mio lavoro», ha risposto De Pietro. Ovvero cercare di dire la verità, anche se è poco lusinghiera. «Voglio solo essere il più onesto possibile con me stesso. E se riesco a essere onesto nel lavoro, forse potrei esserlo anche come persona. Forse».
Secondo la mia esperienza, De Pietro è sincero quando gli parli. Se gli chiedi della morte, per esempio, cosa che ho fatto con un certo timore, ti dirà la verità. La verità, ha detto, è che «ci penso sempre». Avrei voluto che tutti fossero stati insieme a noi ad ascoltare quanto ha detto dopo. Perché è stato meraviglioso, ed è difficile renderne la bellezza, ma De Pietro ha parlato per quasi 140 minuti, dopo la mia domanda scomoda sulla morte, e ora posso solo riassumerlo, ma ci provo.
«Mi guardo intorno, perché voglio capire che fine farà tutto questo», ha osservato De Pietro, indicando con un ampio gesto la stanza piena di oggetti accumulati nel tempo. «Devo lasciar andare tutto. Sono stato un grande collezionista, ho sempre avuto una passione sfrenata per le cose inutili; fotografie, articoli, riviste di articoli pubblicati, Cd, cassette, fatture, biglietti da visita e i libri, ma ora è il momento di dire addio». Nello sgabuzzino accanto c'erano una serie di scaffali così affollati di foto dei suoi amici e delle figlie da non riuscire a vedere. «È il mio mosaico personale», lo ha chiamato. Doveva sparire, disse. Anche le riviste con tutte le mie pubblicazioni e foto dentro le immagini delle persone care sugli scaffali dovevano sparire. «Quando capisci che devi lasciare andare e che stai per morire, tutto cambia», ha affermato.
In che modo? Ha parlato del tempo come di una risorsa preziosa. «Non lo stai buttando via, lo stai usando», ha affermato. «L’importante è saperlo usare bene, anche quando sembra che non si stia facendo niente. A volte basta esistere, senza fretta. Guarda fuori dalla finestra», ha detto indicando la finestra «e osserva il prato e gli alberi di pini che si vedono dalla sua finestra.».
«La cosa importante è come usi il tuo tempo. Perché una volta usato, non lo recuperi più. Non tornerà indietro. Perciò esiste un equilibrio tra il permettere a sé stessi di esistere, quello che alcuni chiamano “riposare” anche se in realtà non è riposo ma è vita, e l’assecondare il desiderio maniacale di volere sapere tutto e subito. Tutto».
Ha cominciato a guardarsi un po’ intorno. «Che libri ci sono qui? Quello è Martin Fierro, era un libro sul contadino argentino. Poi c'è questo, ho iniziato a leggerlo ieri sera, è fantastico». Jorge Luis Borges (che ha conosciuto di persona all’Hotel Ambasciatori a Roma) . Ha afferrato un altro volume: «Il precettore di Shakespeare, Thomas Kyd». Gli piacerebbe tornare a scuola, ha detto. Desidererebbe leggere la Divina Commedia: «Bisogna studiarla tutta, ma serve una guida». Ha divorato tutto James Joyce, ma c'è molto che ancora gli manca. Un romanzo su un uomo che sta a letto e non fa nulla. «Si accontenta di esistere. Non vuole innamorarsi, perché fa male. Non vuole avere amici, perché è faticoso. E io vorrei leggere quel libro. Perché forse il senso della vita è solo... guardare ai nostri cani. Loro esistono e basta. Non hanno colpe. Sai cosa voglio dire? Forse si può raggiungere quella pace interiore? Allo stesso tempo, però, sono curioso di conoscere altre storie ma non ho più tempo».
Aveva davanti a sé i le foto, i libri, le idee per nuovi reportages, tutto quello che sognava di fare, ma sapeva che non avrebbe avuto il tempo. «Ho perso l’occasione di seguire tante strade che mi interessavano», ha detto. «L’unica cosa che posso ancora seguire se decido sono altri miei articoli di viaggio, non ultimati, magari ancora la Calabria. O se mi capita qualcosa che mi colpisce e penso: ‘Oh, questo è il viaggio per me, lo devo fare’. Potrei mettermici a viaggiare nuovamente. Potrei realizzarlo. Credo di farcela, purché abbia la fortuna di restare vivo e in salute. Ma ci sono anche progetti di cui sono editore e che vorrei editare io, ma ormai non ho più tempo. Dieci anni fa, sarebbe stato diverso».
Cosa resta? Il lavoro, naturalmente. La famiglia. La fede, nel caso di De Pietro. «La mia educazione è stata così, tra accettazione e rifiuto della religione; e quale religione è quella giusta, dove l’ipocrisia non esiste. Alcuni temi che tratto nei miei articoli riflettono questa cosa. Vuol dire che ne faccio ancora parte, o che ne sono influenzato. Devo capire cosa significa per me, chi diavolo sono. Cioè, come si collega alla mia identità o come io mi rapporto ad essa, qualunque cosa sia. Mi viene in mente il mio amico Emilio (ora abita in Australia) , quando diceva che la fede è come cercare l’interruttore della luce in una stanza buia. E io sono ancora al buio. Forse c’è una speranza di luce, chissà?».
Il fatto di non avere ormai più tempo, ha riflettuto, era anche una liberazione. Ho borbottato qualche domanda su cosa avrebbe voluto realizzare ancora nella sua vita. Creare un ultimo grande giornale con notizie allegre? E fare pace con Dio? In realtà, De Pietro ha detto che non esiste una soluzione definitiva. Ci sei solo tu. «Non credo di dover fare qualcosa di eccezionale», mi ha detto. «Penso di dovere solo proseguire, sperimentare. Riconciliarsi con Dio è un percorso continuo. Con l’età ti rendi conto che il tempo si sta esaurendo. Devi affrontare questa realtà ogni giorno. Dipende dalle persone che incontri, dal modo in cui le tratti, il meglio possibile. Quando si dice: ‘Mettetevi in pace con Dio’, tendi a pensare che si tratti di imparare il mistero della vita? Non vedo come si possa ottenere una risposta. Non la troverai. Significa che devi liberarti dal senso di colpa? Probabilmente non accadrà mai. Comunque, non ha importanza perché fa parte di te. Devi imparare a conviverci. E allora devi dire a te stesso: ‘Ecco che sono io di nuovo. Ecco che sento ancora quel dolore qui. Va bene, non mi fermo. Oh, mi ha dato un colpo qui alla testa, eh? Accidenti. Va bene, ce la faccio. Oh, ecco che riemerge quel problema che avevo 50 anni fa».
Prosegui. Tutti quei conflitti interiori, la persona che continui a ritrovarti davanti e vuoi conoscere, i cui difetti e speranze e sogni hai cercato di risolvere attraverso il tuo lavoro fin dall'inizio? Tutte quelle sfide, il passato che torna a galla, in continuazione: «Credo che alla fine tu riesca a gestirli», ha risposto De Pietro. «Ma non significa che non facciano male».
Sorride, scrolla le spalle come il calabrese che sarà sempre. «Tanto, che ci vuoi fare?».

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