05/02/2025
Leggiamo questa condivisibile analisi di ALESSANDRO TROCINO sul Corriere della Sera, siete d'accordo?
I giornali stranieri, ai quali nella nostra esterofilia affidiamo uno status che non sempre meritano, all’epoca titolavano: «Vittoria schiacciante per il Cinema America: i ragazzi salvano la sala». Martin Scorsese, Spike Lee, Wes Anderson e, nel nostro piccolo, Carlo Verdone e Paolo Sorrentino venivano in visita ecumenica negli spazi di via Natale del Grande, a Roma. Valerio Carocci, il capopopolo dei giovani cinefili, faceva sapere con spreco di «ella» che aveva scritto anche al Papa, ricevendo una benedizione per i suoi «ragazzi» che avevano occupato lo spazio nel 2012, dopo la chiusura del 1999.
La vittoria, in effetti, c’è stata, trionfale, ed è stata però solo dell’associazione di Carocci che è diventato un fenomeno culturale a Roma, con la benedizione laica del Pd di Nicola Zingaretti, prodigo di finanziamenti e di protezione. Alla fine «i ragazzi», dopo avere imperversato con i loro «schermi pirata» per la città, resi immuni alle norme e alla concorrenza grazie all’hype concesso da attori e registi di fama e alle relazioni politiche di Carocci, hanno aperto un loro bel cinema, il Troisi, partecipando a un bando regionale, con l'aiuto di Regione e Comune.
E il cinema America di via Natale del Grande? E rimasto chiuso, sbarrato, preda di topi e senza tetto, che sotto la tettoietta si riparano dal freddo e dalla pioggia. «La vittoria» dei «ragazzi» non è stata quella del cinema, né del quartiere, che ha un piccolo monumento al degrado ormai da 26 anni. Il proprietario voleva trasformare il cinema in appartamenti residenziali e parcheggi, ma da Roma sono arrivati, provvidenziali per tutelare il degrado, un paio di vincoli ad hoc dei Beni Culturali. E in più c’è la questione della destinazione d’uso, che non si può cambiare. Hai aperto un cinema 50 anni fa? Te lo tieni. A vita. E pazienza se va male.
È un tema frequente di discussione tra appassionati. Non c’è un equivalente in nessuna altra attività: qui spesso sei vincolato a vita. Un cinema è per sempre, non esiste il divorzio nel settore. Ma è giusto, dicono gli appassionati: le sale vanno salvate. Vero. Però pensare di salvarle obbligando i proprietaria stare aperti, anche se affogano nei debiti, pare contrario non solo alle vituperate leggi del mercato, ma anche al buon senso, oltre che ai legittimi interessi dei proprietari.
Noi lottiamo contro il mercato, dice qualcuno. E va bene, qui si apre il dibattito vero. Se non vogliamo vivere in un regime sovietico ma neanche in uno iperliberista, il mercato va rispettato ma corretto. Anche a questo serve o dovrebbe servire lo Stato, a questo servono i Comuni e gli enti locali: a sovvenzionare luoghi e associazioni e opere meritevoli, a consentire di superare gli inevitabili squilibri della legge della domanda e dell’offerta. La Francia, con Jack Lang e la sua eccezione culturale, è stata maestra di sovvenzioni (e protezionismo).
E dunque, eccoci alla vituperata legge alla quale la Regione Lazio sta per dare il via libera. Stabilisce, nelle ultime modifiche, che alle sale già chiuse al 31 dicembre 2023 potrà essere concesso il cambio di destinazione d’uso, una volta trascorsi 7 anni dalla cessazione dell’attività. Per quelle non ancora chiuse a quella data, dovranno trascorrere 10 anni. Se invece viene mantenuta la funzione originaria per almeno il 30% della superficie, viene riconosciuto un aumento fino al 15% della volumetria per realizzare interventi di ristrutturazione e fino al 30% per la demolizione e la ricostruzione. Finora era necessario preservare il 70% per cento della superficie e non il 30. Di fatto, una sorta di liberatoria per i proprietari delle decine di cinema abbandonati, oltre che del Metropolitan di via del Corso che da anni attende di diventare un mega store.
Su questa legge si alzano forti i lamenti e le invettive da sinistra. Carlo Verdone ha rilasciato un’intervista dolente a Repubblica, parlando di «attentato alla cultura». Se viene approvata la legge 171 che propone la giunta regionale, spiega, «passeremo 15 anni (come da proposta originaria, ma ora sono diventati 10, ndr) — con sale abbandonate nel più totale degrado». In sostanza, si dice, se io so che tra 10 anni posso fare un Bingo o un supermercato, guadagnando miliardi, posso anche rinunciare a 10 anni di magri introiti con un cinema. E così tengo chiuse le porte. Non benissimo. Anche se si fa fatica a pensare che un imprenditore decida di tenere improduttivo per 10 anni un immobile per poterci poi guadagnare in futuro. L’effetto sul passato, invece, è quello benefico di una sanatoria di situazioni ormai incancrenite.
Sostenere l’immutabilità perenne della destinazione d’uso per le sale è una tesi ideologica, con pochi effetti positivi. Si possono costringere i venditori di macchine fotografiche a tenere aperti negozi se nessuno le compra più, causa smartphone? Ha senso? Costringerli farebbe ripartire il mercato di macchine fotografiche? Naturalmente no. Lo stesso vale per il cinema. Anche se, si dirà, la speculazione fa chiudere posti che potrebbero tranquillamente stare in piedi, magari con margini ridotti. Ma la soluzione qual è? Non certo quella di vincolare i proprietari a essere titolari di sale per sempre. Pietro Valsecchi, noto produttore, propone di portare a 30 anni il periodo di inattività prima di consentire il cambio gestione. Perfetto, immobili abbandonati per 30 anni.
Una soluzione sarebbe l’intervento ragionevole del pubblico, considerando però che l’età dell’oro delle sale è finita e non tornerà e bisognerà dunque rassegnarsi a una riduzione ragionevole del numero delle stesse. Un aiuto, certo, potrebbe arrivare dalla discesa in campo di imprenditori illuminati. E qui veniamo all’appello pubblico romano, firmato da grandi nomi: tra gli altri, Marco Bellocchio, Paolo Sorrentino, Matteo Garrone, Mario Martone, Paola Cortellesi, Pierfrancesco Favino e Valerio Mastandrea. Scrivono, testualmente: «Come operatori del settore, siamo pronti a intervenire per riacquistare e riqualificare le sale cinematografiche, restituendole alla loro funzione originaria e promuovendo una rinnovata partecipazione del pubblico. Chiediamo dunque con forza che le istituzioni competenti pongano un freno a questo sciacallaggio immobiliare e adottino misure concrete per salvaguardare il patrimonio cinematografico nazionale».
Sarebbe bello che lo facessero, seguendo l'esempio di Nanni Moretti, con il suo Sacher. O quello di Silvano Agosti e del suo Azzurro Scipioni. Sarebbe bello che distribuissero una quota minima dei loro lauti guadagni reinvestendo in sale cinematografiche e sbaragliando quegli «sciacalli» che vogliono mettere bingo dappertutto. Riccardo Milani, marito di Paola Cortellesi, si è detto pronto a unirsi a una cordata. Spiegando: «Si parla di luoghi abbandonati da mettere a posto, ecco il cinema America era un luogo abbandonato e i ragazzi che si sono messi assieme hanno creato una realtà importante». Per la verità l’America è sempre lì, un monumento allo squallore, i «ragazzi» sono riusciti a fare altro. Milani aggiunge, comprensibilmente, «lo farei anche se non è il mio mestiere».
Ecco, infatti, aprire una sala è un’attività imprenditoriale, prima che culturale, e al momento è decisamente un'idea antieconomica o rischia di esserlo. A meno che, e torniamo al punto, non ci sia un sistema pubblico di agevolazioni e finanziamenti. Nulla lo impedisce. E forse gli sforzi di tutti dovrebbero convergere non nel costringere poveracci titolari di vecchi cinema a tenerli aperti con la forza, ma i Comuni e lo Stato a pensare a forme di decontribuzione e di finanziamento, magari azzerando gli affitti, spesso insostenibili. Questo dovrebbe valere per i cinema, ma anche per i teatri, le librerie e i luoghi di cultura. Lo Stato dovrebbe aiutare, non solo a Roma (anche a Milano e in tutta Italia chiudono i cinema), chi una sala ce l’ha a farla diventare produttiva, magari investendo direttamente, entrando in società e costruendo una rete di sale pubbliche.
Chiamare sciacalli i proprietari che non ce la fanno più o scelgono legittimamente di fare altro servirà a poco. Così come servirà probabilmente a poco questo spontaneismo fuori tempo massimo di appelli accorati, con generiche e un po' patetiche disponibilità a «riacquistare» sale morte.
Particolarmente illuminante è il parere di Gino Zagari che, con l'aiuto di Nicola Giuliano di Indigo, ha trasformato una sala parrocchiale in un bel cinema, il Caravaggio. Commentando un post di Michele Anselmi, che ironizzava sull'appello di Verdone, scrive: «Se invece di pensare di resuscitare i morti, si provasse a non far morire i vivi, forse faremmo un passo avanti. Ad esempio il Comune di Roma fa pagare una tari basata sui metri quadri e non sull’ immondizia prodotta (pago un sacco di immondizia circa 40 euro), non supporta o incentiva le scuole a proiezioni scolastiche, co-organizza eventi cinematografici nei teatri. Aprire o riaprire un cinema non è un gioco da ragazzi né un affare economico. Ci vuole passione (tanta), sacrifici (tantissimi) e stomaco (infinito) e a volte, lo riapri e per strani casi non accedi al prodotto. Aggiungo che a livello di prezzi siamo praticamente fermi alla lira quando il biglietto costava 12.000 lire e oggi il prezzo medio è di 6.5 euro mentre sono triplicati i costi di funzionamento».