08/12/2024
La storia linguistica di un territorio è determinata dal etnico, e dunque culturale e religioso, dei popoli che, di volta in volta succedutisi, ne hanno scandito le tappe. Nel variegato universo delle discipline linguistiche, quando si pensa a sue specializzazioni come la , il pensiero subito volge a lingue prive di qualsiasi forma di documentazione diretta: è il caso della lingua ricostruita per antonomasia, l'. Segue una posizione intermedia, quella delle cosiddette Restsprachen (“lingue residuali”), la cui esiguissima documentazione consente, comunque, di svolgere un minimo di “ricostruzione”: è il caso di lingue italiche come il siculo, l'osco ecc. Possiamo, però, estendere l'applicazione formale di problemi ricostruttivi a lingue che, pur documentate, recano nel loro DNA i segni di una storia sociale fittamente intricata?
Un notevole caso di studio è quello offerto dalla più grande isola del Mediterraneo, la Sicilia, la cui lingua romanza, il siciliano, sin dal sorgere dei primi studi ha destato curiosità per il suo carattere all'apparenza poco conservativo rispetto a quello di altre lingue insulari e peninsulari del Sud. È, ad esempio, interessante segnalare come alcuni dialetti meridionali conservino strati di latinità più arcaici (come il lessema crai 'domani', che continua il latino classico cras), mentre il siciliano vanta forme riconducibili a tipi lessicali meno antichi (qui CRAS ha subito la concorrenza della sua corrispettiva innovazione del latino tardo, de mane, da cui deriva l'odierno domani). Potremmo, per la discussione del problema, rivolgerci a un'altra branca della linguistica, la che, pur con le opportune riserve, ci insegna che è più plausibile che un repertorio lessicale più arcaico si conservi in regioni più isolate, insulari. Ma fu questo il caso della Sicilia?
Il siciliano è un dialetto neolatino il cui principale problema di studio orbita intorno alla comprensione dei tempi con cui il latino sia giunto nell'isola e di quali siano state le sue interazioni con le altre lingue che si parlavano lì. Quali lingue? La vitalità e continuità del greco dall'antichità sino al XII sec. è indiscussa, tanto da valicare le acque dello Stretto e, da lì, espandersi in Calabria. Una data di cesura fondamentale è l'827 che sancisce l'inizio del dilagare dei musulmani nell'isola e, di conseguenza, anche della lingua araba: e sarà proprio l'arabo a lasciare una traccia indelebile nel siciliano e in quella che del lessico è la branca meno soggetta ad alterazioni, la ; come _qal'a, “_castello”, nel nome del paese Caltagirone.
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L'assetto territoriale della Sicilia al momento della dominazione araba (IX-XI secolo)
Ma le sorti linguistiche dell'isola si decidono con l'arrivo dei normanni, popolo del nord-ovest della Francia, la cui conquista, iniziata nel 1061 per liberare la Sicilia dai musulmani, si conclude in un trentennio. In quest'epoca la Sicilia è trilingue: accanto al greco, al latino e all'arabo, riservati a usi “alti”, riacquista vitalità anche la lingua romanza locale, il “siciliano” più antico, ma escluso da usi scritti. Non siamo in possesso di alcuna documentazione diretta del siciliano anteriore all'epoca normanna. Quale sarà stata la sua prima forma? Ci è quasi impossibile saperlo; possiamo, tuttavia, ipotizzare che esso sia ancora stato una varietà bassa e rurale, che subiva la concorrenza dei gruppi grecofoni e arabofoni e che, sul versante lessicale, avrà iniziato a configurarsi come assai variegato. Data di cesura non secondaria è anche il 1282 con i che, insieme ai diversi orientamenti politico e linguistico (ormai rivolti verso la Pen*sola Iberica, recisi i legami con la Francia), sanciscono la prima affermazione di quel sentimento di estraneità degli isolani rispetto alle vicende delle genti del continente, con inevitabili riflessi linguistici. Come spiegare la genesi del siciliano tenendo conto delle dinamiche di che hanno scandito la sua storia?
Alcuni studiosi hanno rivendicato la derivazione del siciliano dal latino parlato nell'isola: si tratterebbe, dunque, di una lingua dai caratteri strutturali indigeni che avrà visto aggiungere, a poco a poco, parole estranee al suo repertorio lessicale originario. Ci fu anche chi parlò di una neo-romanizzazione della Sicilia: l'isola, cioè, sarebbe stata investita da flussi migratori provenienti dalle regioni del nord della pen*sola italiana. Per questo la sua lingua, come scrive in Scavi linguistici nella Magna Grecia, mostrandosi priva «delle peculiarità individuali dei dialetti locali, […] d'altra parte mostra gl'influssi d'un volgare italiano, in cui si notano i caratteristici elementi che provengono dai dialetti gallo-italici dell'Italia settentrionale. A questo poi si aggiunge una rilevante percentuale di elementi francesi e di relitti lessicali arabi e greci». Si insiste, dunque, sulla progressiva cancellazione di tratti più arcaici e “meridionali”, mentre si intensificano i prestiti da altre lingue. Realizzatasi la riduzione di numerose varietà (scompare, ad esempio, il greco che, conservatosi solo nel messinese, vi si estinguerà a partire dal '500), assistiamo, come scrive il filologo e linguista Alberto Varvaro, alla «generalizzazione di un tipo dialettale più uniforme di quello di altre zone della pen*sola italiana». Non possiamo, però, banalmente spiegare queste dinamiche adducendo la semplice eliminazione fisica dei parlanti, arabi o greci e, dunque, delle loro lingue. Il nostro è un problema di , e bisogna collegare lingua e storia.
Il siciliano è, sì, un dialetto meridionale poco “canonico” per le sue relative modernità e omogeneità. Ebbene, come ci ricorda ancora Varvaro, queste sue proprietà «sono il punto di arrivo e la spia di un grande processo di mutamento sociale, che include tanto l'assimilazione di gruppi eterogeni in un corpo relativamente compatto […], che non è più quella di nessuna delle sue componenti, quanto la modifica dell'iniziale complessità sociale in direzione di una semplificazione polarizzante», D'altronde, «un processo che investe le strutture linguistiche e le loro norme d'uso è […] di necessità un processo collettivo»: e un tale processo travolge non solo tutti i gruppi sociali, ma anche le loro dinamiche di identificazione per aprire la strada all'affermazione della coscienza di essere “siciliani”.
Il problema della cosiddetta “modernità” non si esaurisce, però, ancora qui. A comprova della presunta dicotomia tra usi linguistici della Sicilia e del restante meridione, si è addotto l'esempio della distribuzione dei verbi tenere-avere: si pensava che, se i dialetti centro-meridionali e la Sardegna usano tenere (< tenēre), allora il siciliano, che ricorre ad avere (< habēre) deve aver subito una modifica forse a causa degli influssi settentrionali. Tuttavia, è proprio quest'ultima la forma più antica, confinatasi nelle regioni meridionali estreme, che, prima del sopraggiungere dell'innovazione tenere, era attestata anche in testi campani antichi. Impostando il problema secondo termini sociolinguistici, sarà allora necessario fare un'ulteriore specificazione e riconoscere all'interno della nostra varietà l'uso di più registri: Franco Fanciullo distingue «tra siciliano “colto” e siciliano “rustico”, configurabili come i classici rapporti tra varietà dominante e varietà dominata, con osmosi tra le due ma soprattutto […] controllo della prima sulla seconda […]». Bisognerà, allora, chiamare in causa anche la primazia di questo registro colto che, nella genesi del lessico del siciliano, potrebbe aver bloccato la propagazione nell'isola di innovazioni che andavano, invece, diffondendosi nel continente. Questa è, però, un'altra storia…