03/08/2024
Ogni tanto bisogna proprio farlo, ancora di più quando abiti in posti come i nostri:
Prendi e parti la mattina molto presto come se tu fossi una turista. Invece degli abiti pseudo- chichettosi per fare le vasche nel corso, ti metti pantaloncini corti rigorosamente da trekking- meglio se della Columbia, Northface o simili, fighe, insomma, una t-shirt color verde, meglio se tendente al fosforescente, calzini che coprono le caviglie- no fantasmini. Poi scarpe robustine da ginnastica o da trekking, ma leggere. Quelle che vanno bene per la città, ma comunque gridano al pubblico: “hey, sono una trekker tosta, io , anche se oggi cammino nel centro di Siena”.
Poi ti incammini con lo zainetto- va anche la borsa a tracollo- verso la fermata del bus. Nel mio caso Ponte allo Spino/ Sovicille. Attraversi un campo di erba medica, tagliata da poco che profuma ancora di notte e nepitella, passi sotto una quercia, secolare e solitaria e imbocchi la stradina fiancheggiata da muri a secco.
Alla fermata vieni inondata da un giallo oro, giallo brillante, giallo giallissimo che ti toglie il fiato. Il sole è ancora basso e rende i colori soffici e dorati. Ti siedi nella casina di legno e guardi, incredula, il dipinto vivo che si apre davanti a te. Un campo di girasoli e una pieve romanica che vi emerge come una nave silente da un oceano dorato.
Te, turista, magari Americana, mettiamo del Kentucky, proveniente da un sobborgo leggermente squallido, mettiamo di Lexington o da una cittadina paludosa del South Carolina, tanto per dirne due. Insomma, te, turista un pochettino attempata che è approdata per la prima volta in vita sua in Italia. Ma che devi dire, che ti deve succedere nell’anima? Cosa può risvegliare in te una tale vista che ti si presenta davanti ad una semplice fermata del bus? Che ti apre le porte, ti spalanca le porte e ti scaraventa dentro alla storia millenaria, alla dignità e sapienza di un passato dove tutto era stato edificato con la forza delle mani. Con la forza vitale del corpo umano, con la forza del saper fare che collega la terra al cosmo, dove ogni misura, proporzione e forma era simbolo per qualcosa di più grande.
Cosa deve evocare questo quadro di una chiesa solitaria e un campo di girasoli, in te, turista Kentuckyana, che ha vissuto in città moderne, senza storia, poca anima e nessun edificio che esprima la consapevolezza di una dimensione più vasta. Dove regna l’efficienza, la fretta e l’autocelebrazione degli architetti quando si costruiscono le cose?
Passi attraverso le porte spalancate? Riesci a respirare la sacralità di una pieve antica?
Arriva il bus, il viaggio continua. A parte una donna Sud americana sei l’unica passeggera. Troppo presto. Campi con le stoppe giallastre, alberi nella luce soffice del mattino che serba in sé la gioia di una nuova giornata. Cielo azzurro senza una nuvola.
Arrivi a Siena. Il bus circumnaviga la Lizza dove il possente cavallo di Garibaldi scalpita immobile almeno da un secolo e cerca di ribellarsi, con occhi pieni di terrore, alle redini del generale che gli tira, senza pietà, la mascella verso il petto. Almeno da un secolo.
Chissà se ha un nome, il cavallo, ti chiedi.
Ma te, turista del South Carolina, probabilmente non sai nemmeno che sia Garibaldi, tanto meno che la cavalla sfortunata si chiami Marsala. ( anche io , che scrivo, lo scopro solo ora. Marsala, come la spiaggia Siciliana, Google for ever)
Ti incammini verso il fulcro della città: la piazza del campo. Calpesti le lastre grige, nere, antracite. Lastre piene di segni e simboli, consumate e levigate, che raccontano la vita millenaria di ogni giorno, con i disegni delle loro ferite.
Le strade sono ancora intrise del caldo della giornata di ieri e te incredula, cammini su pietre che hanno sentite milioni di passi di gente e bestie, che ancora conoscono le urla dei soldati Guelfi e Ghibellini, il silenzio dei pellegrini e il chiacchiericcio delle donne che vanno al mercato, oggi come allora. Calpesti le lastre grige, nere, antracite. Lastre piene di segni e simboli, consumate e levigate, che raccontano la vita millenaria di ogni giorno, con i disegni delle loro ferite.
Ti fermi, rapita, davanti alla roccaforte Salimbeni. Viene avvolta da questa nube di storia, di arte e architettura come da un sogno. Come può un edificio esprimere una tale forza e solennità possente senza che diventi una mera brutalità? Come possono le trifore con i loro archi eleganti e gentili convivere con muri quasi da carcere, senza creare una disarmonia stridente, ma al contrario, esprimere un prefetto equilibrio?
Vai oltre, scendi giù lungo il corso. Edifici in pietra di torre grigiastre, nere e color avorio. Edifici in mattone rosso- terra di Siena, rosso-bruno terra bruciata, arancioni. Archi gotici. Finestre rinascimentali. Basamenti di torri che secoli fa erano più alte e più numerose. Stemmi, portali e portoni pesanti in legno con ferramenti giganteschi che risuscitano immagini di fabbri dai capelli lunghi e corpi coperti di sudore che riflettono il rosso del fuoco e forge incandescenti. Scene infernali appesi ai portoni.
È presto la mattina e le strade vuote di persone.
Qualche lavavetro pulisce le vetrine dei negozi moderni, gli stessi negozi o quasi, che trovi anche a Lexington. I camioncini raccattano la spazzatura. Poi scendi delle scale al buio fresco tra due palazzi e passi sotto un arco. Ti fermi. Non osi quasi uscire dal viottolo, non osi quasi fare il primo passo per entrare nella piazza. Si svegliano, di nuovo, pensieri e sentimenti che non sapevi di avere, risuscitati da un’antichità che forse, da qualche parte, stava assopita nel tuo essere. La piazza e i palazzi sono troppo.
Una conca dalla forma morbida e accogliente che scende verso un punto decentrato, che si spalma sul terreno adattandosi alla collina, che non si impone, ma sembra stesa come un lenzuolo arancione-spento su un campo di grano appena tagliato. Qua e là spuntano dei fili di erba tra le crepe dei mattoni. Te, la canzone della piazza del campo non la conosci, ma per qualche inspiegabile ragione la senti lo stesso. Un eco che alleggia sulla piazza, come vi alleggia il caos ordinato del Palio, la tensione acuta e quasi insopportabile e la gioia sfrenata di quella f***e corsa.
Ma poi entri, cammini lungo i colonnini e ti siedi, da vera turista, in uno dei tanti caffè con i tendoni, tutti rosso bordeaux. Sei la prima cliente e il cameriere è ancora colmo di pazienza e bontà. L’unica cosa che non riesci a fare è ordinare un cappuccino, come farebbe una turista Americana “vera”
O un “latte” come lo chiamano loro ( che orrore)
Prendi invece, come da quattro decenni ormai, un espresso alto con una goccia di latte freddo e la brioche vuota. Il caffè è squisito, la brioche troppo appiccicosa.
Non riesci a togliere il tuo sguardo dal Palazzo pubblico.
Dalla bellezza sobria e semplice, dall’antica zecca in basso costruito con massi di pietra chiara, enormi e squadrati uno ad uno a mano, dagli archi a doppia curvatura, incorniciati di nero e gli stemmi, bianchi e neri, di Siena. Così pulito e liscio. Solo l’essenziale per creare un racconto, con pochissime parole- quasi Zen.
Non riesci a togliere lo sguardo dalle linee ordinatissime dei mattoni rossi, così ordinati e precisi che ti ricordano i mattoncini Lego e le casine costruite con la pazienza sbalorditiva dei bambini. Non stacchi lo sguardo dalle trifore con le loro colonnine esili incastonati nei mattoni come piccoli scintille arabeggianti.
E poi dalla torre, alta, altissima, tanta alta come se volesse forare la volta celeste per toccare il sole. Scorgi le lupe che si sporgono pericolosamente in cima alla torre e sembrano alla guardia per proteggere la città da un’eternità. Una città protetta dalla Madonna e dalle lupe. Interessante.
Non poi sapere che una volta le facciate dei palazzi erano intonacati e dipinte di rosso, ocra, avorio e giallo. Che bellezza doveva essere.
Il caffè , pian, piano si riempie di turisti veri, Svizzeri, per primi, Francesi, Spagnoli.
Io torno ad essere Sovicillina. Ma di straforo. Sempre straniera sono.
Ma mai estranea, ogni giorni, all’ infinita bellezza che mi circonda in questo angolo della terra. Grata di vivere qui, grata che la vita mi abbia portata e scaricata, per così dire, proprio dove sono.