28/06/2023
La Leggenda delle Teste di Moro
Siamo nell’assolata Sicilia, culla di civiltà e crocevia di tantissimi popoli; luminosa e oscura; generosa e avara; amichevole e riservata; estroversa e intimista; luogo di visibile e invisibile; di riti che, pur affondando nella notte dei tempi, resistono all’oggi e, soprattutto, di leggende truculente come questa.
Passeggiando per questa meravigliosa terra di cui Goethe disse: “L’Italia senza la Sicilia non lascia nello spirito immagine alcuna.
E’ in Sicilia che si trova la chiave di tutto“
Vi sarà capitato di imbattervi in coloratissimi vasi di terracotta, in siciliano “graste” o “rasti“, bellissime opere d’arte, le Teste di Moro, che raffigurano sia il volto di un uomo, sia quello di una donna, entrambe legate a differenti versioni del racconto.
Prima versione
Secondo la leggenda originale, intorno all’anno 1000, nel pieno della dominazione dei Mori in Sicilia, nel quartiere arabo di Palermo “Al Hàlisah”, che significa l’eletta, oggi chiamato Kalsa, viveva, chiusa in casa per la gelosia del padre, una bellissima fanciulla. L’unico suo svago era la cura quotidiana delle piante del suo balcone. Un giorno, un giovane e bellissimo soldato Moro, che era solito passare da quella strada, nel vederla se ne innamorò a tal punto da dichiararsi con grande ardore. La giovane, colpita da quel volto e quel corpo che sembravano scolpiti nell’ebano, convinta di aver trovato il principe tanto atteso, ricambiò con altrettanta passione.
Il Moro, però, aveva omesso di avere moglie e figli che lo attendevano in Oriente, in quella terra nella quale avrebbe dovuto far ritorno quanto prima. La fanciulla, nell’apprendere tale notizia, sentendosi ingannata, presa da una rabbia incontrollabile e da una freddezza che non sospettava di possedere, decise di imboccare la strada della vendetta. Così, in una notte in cui l’uomo era sprofondato in un sonno pieno e appagato dopo l’amore, lo colpì mortalmente decidendo che quel volto sarebbe rimasto al suo fianco per sempre. Per fare ciò, senza esitazione, lo decapitò, gli aprì il cranio, gli piantò dentro un germoglio di basilico, creando una sorta di vaso. La scelta di piantarvi l’odorosa pianta di “Basilikòs”, l’erba dei sovrani, era legata proprio alla sua aura di sacralità.
L’uomo, che tanto aveva amato al punto da concedervisi e che l’aveva ingannata, sarebbe stato suo per sempre e lei avrebbe potuto guardarlo, possederlo e prendersene cura ogni giorno della sua vita. Mossa da questo pensiero, depose la testa sul suo balcone, innaffiandola quotidianamente con le proprie lacrime che facevano crescere la piantina aromatica rigogliosamente. I vicini, avvolti da quel profumo e guardando con invidia quel particolare contenitore a forma di Testa di Moro, si fecero realizzare, dagli artigiani locali, vasi in terracotta che riproponevano le stesse fattezze di quello amorevolmente custodito dalla fanciulla.
Seconda versione
Secondo un’altra versione, invece, una fanciulla siciliana, di nobili origini, visse un amore clandestino con un giovane arabo e, per questo atto disonorevole, fu punita con la decapitazione di entrambi. La vergogna di quell’amore fu, inoltre, proclamata dall’affissione di entrambe le teste, trasformate per l’occasione in vasi, su di una balconata. Questa visione sarebbe servita da monito a chi avesse osato abbandonarsi a passioni illecite e disdicevoli.
Terza versione
Versione della macabra leggenda delle teste di moro, è quella raccontata da Boccaccio nelle novelle del suo Decamerone.
Il Boccaccio ambienta la storia direttamente a Messina, dove la protagonista principale è Lisabetta una ragazza nobile orfana che è gelosamente custodita dai suoi tre fratelli, arricchitisi ereditando le attività del padre defunto.
Lisabetta si innamora di Lorenzo, un ragazzo pisano che lavorava per la famiglia della ragazza. La storia d’amore va avanti in segreto fino a quando i tre fratelli la scoprono mentre esce per incontrare il suo amante e decidono così di mettere fine alla relazione per non infangare il buon nome della famiglia.
Con la scusa di un affare da condurre fuori città, i fratelli conducono Lorenzo nelle campagne messinesi e lo uccidono, nascondendo il suo corpo in una fossa poco profonda. Al loro ritorno a casa, dicono alla sorella che Lorenzo è semplicemente partito per affari.
Ma dopo una lunga assenza, Lisabetta inizia a preoccuparsi per la mancanza di sue notizie, soprattutto dopo una partenza improvvisa. Una notte, Lorenzo le appare in sogno dicendole che è stato ucciso dai suoi fratelli e descrivendo il luogo dove il suo corpo è sepolto.
Decisa a trovarlo, ottiene dai fratelli il permesso di fare una gita in campagna con la sua serva. Trovato il corpo di Lorenzo e non potendo dare al suo amante la sepoltura che merita, impazzita dal dolore gli taglia la testa per portarla a casa con sé. Giunta nella sua stanza, nasconde la testa in un vaso e ci pianta del basilico. La pianta fiorisce, innaffiata dalle lacrime di disperazione della giovane.
Vedendo lo strano comportamento di Lisabetta, i suoi fratelli scoprono la testa di Lorenzo e temendo che rappresenti una prova del loro crimine, se ne sbarazzano, abbandonano Messina e fuggono a Napoli lasciandosi dietro una sconvolta Isabella che alla fine muore di crepacuore.
Quarta versione
Una versione della storia dona radici storiche locali alle ceramiche delle botteghe di Caltagirone, spostando gli eventi alla Qal’at al Ghiran saracena all’epoca della conquista normanna (nel 1090, quindi); parla del maestro artigiano svegliato nella notte dai soldati del Re normanno (Ruggero) per ordine segreto della Principessa (che sarebbe dunque Emma d’Altavilla). Nella pergamena consegnata dai soldati si ordinava di realizzare un vaso maiolicato cavo all’interno riproducente il viso del califfo saraceno da lei amato e decapitato dopo la conquista normanna della città. L’artigiano, come il Re Ruggero, non seppe mai che nel vaso fu conservata la testa dell’amato Principe, morto per l’amore proibito, ricoperta di terra come una grasta; dalla terra spuntò una pianta odorosa a cui la Principessa diede il nome dell’amato Basiricò, che le testimoniava la rinascita del loro amore.