16/11/2024
‘900 Telese, S.Stefano in piazza Mercato
La data della cartolina è sconosciuta per il momento. Potremmo avvicinarci all'anno dello scatto in base ai suggerimenti dei lettori.
La nuova ed attuale chiesa di Santo Stefano a Telese Terme è stata costruita al centro di questa foto, con l'uomo a sinistra in corrispondenza dell'attuale ingresso alla chiesa.
Un sacro odore d’incenso
di Aldo Maturo
Venendo da Amorosi la chiesa della parrocchia di S. Stefano ce la si ritrovava davanti, sul piazzale sopraelevato all’incrocio tra via Roma e via Cristoforo Colombo . La chiesa, diversamente da quella di oggi, aveva la facciata che guardava verso la periferia e dava stranamente le spalle al centro abitato. E’ stata lì fino agli ultimi anni ’50, quando il Vescovo Mons. Felice Leonardo decise di sostituire quei centenari tufi neri con il cemento e i mattoncini rossi, più moderni ma certo meno mistici.
Per essere una chiesa non era molto vecchia. Sorta nella seconda metà dell’800, aveva subìto una completa ristrutturazione prima della Grande Guerra, ma negli ultimi anni era stata segnata irrimediabilmente dai rigori del tempo. Le mura lesionate ed ingrigite avevano spinto il Comune ad accogliere l’invito del parroco, Don Mario Goglia, a sostituirla con una nuova. La costruzione sorse nello stesso posto, occupando quasi tutta Piazza Mercato, l’ampio piazzale che dal sagrato della vecchia chiesa si estendeva fino alla contrapposta casa dei Capasso e Romano, dove abitava Don Gerardo, il sindaco storico della Democrazia Cristiana. Su quel piazzale si andava il sabato per comprare frutta, verdure, formaggi e ricotte provenienti direttamente dai campi ed esposte nelle grandi ceste di vimini o panchetti di fortuna dai contadini del circondario.
La chiesa nata per il borgo di Telese, frazione di Solopaca, per cento anni aveva svolto il suo ruolo dignitosamente. La costruzione era formata da un timpano centrale e a destra e sinistra aveva due torrioni sovrastati da cupolette puntiformi. In uno c’era l’orologio e nell’altro la campana, quella vera, di bronzo, azionata dalla fune rigorosamente riservata al sacrestano, un uomo buonissimo, la testa calva incorniciata da una corona di capelli dal colore incerto. La campana parlava al paese, scampanellando per la festa e rintoccando mestamente per i momenti di lutto.
Spingendo lo spesso portone in legno scuro si accedeva direttamente nella chiesa, pretenziosamente arricchita da stucchi e disegni che rivestivano le pareti e il soffitto. Si respirava subito un’aria di sacro, con quell’odore di incenso che impregnava i muri e spingeva al raccoglimento e alla preghiera. Si diceva che nei sotterranei fossero sepolti i sacerdoti succedutisi nella parrocchia e le botole sul pavimento davano un brivido, con quel loro alone di mistero.
A inizio della navata c’era il confessionale, dove avevamo confidato i primi turbamenti, e più avanti i due altari minori in marmo, con qualche capitello e le foglie a sbalzo sul fondo rosso ocra. Su uno un grande crocifisso e sull’altro una madonna su tela annerita dal tempo. Candelieri a muro in ottone, con le lampadine al posto delle candele, inframmezzavano le immagini della via crucis lungo le pareti, accompagnando il percorso tra i banchi fino all’altare maggiore, sopraelevato rispetto al pavimento centrale e protetto dalla balaustra con le colonnine panciute. Lì ci si inginocchiava per ricevere la comunione, prima che il Concilio consentisse sacrilegamente di prendere l’ostia con le mani per deglutirla con comodo.
L’organo con i suoi tasti ingialliti accompagnava la liturgia solenne in una sinfonia di note sacre per rendere più suggestivo il momento della cerimonia. Il suo suono si miscelava al prolungato scampanellio del chierichetto che alla comunione invitava i fedeli al massimo raccoglimento. I canti in latino rendevano più suggestiva la liturgia e tante donnine stravolgevano le litanie ignorando sia la lingua che l’organo ma si sentivano intimamente partecipi del mistero consacrato.
A sinistra c’era la sacrestia, un locale cui si accedeva anche dall’esterno con dei gradini sopraelevati rispetto a via Roma, arredato con qualche quadro e il vecchio mobile guardaroba con i grossi sportelli. Qui Don Mario Goglia si preparava alla S.Messa circondato da noi ragazzini che lo aiutavamo nel rito della vestizione passandogli i paramenti, il calice e la pisside con le ostie, il cibo consacrato preparato con amore dalle Suore degli Angeli.
Dopo la sconsacrazione la chiesa rimase in piedi ancora qualche anno. Fu a volte occupata da noi ragazzi della filodrammatica per le prove de “La Dilettante” che occupavano le lunghe serate invernali, sotto la direzione attenta di Don Raffaele De Crescenzo, ferroviere pentito, regista per vocazione naturale.
Elio e Augusto Di Carlo, Lorenzo De Francesco, Mimmo Follo, Anselmo Mattei, Gino e Riccardo Affinito, Franco Dante, Angelo Leone, Luigi e Tullio Festa e tanti tanti altri. Personaggi cari ai miei ricordi, pronti a sacrificare mesi e mesi invernali per offrire ai telesini momenti di serenità, provando e riprovando le scene, divertendosi per far divertire, su quel presbiterio sconsacrato e in quella navata vuota impregnata d’incenso, destinata a diventare di lì a poco polvere.
(da Fotogrammi di memoria, Aldo Maturo, Ediz.Nous 2013)