17/01/2025
PALLADIO E L'ANIMA DEL GIOIELLO DI VICENZA
Il giorno stava calando quando mi fermai sotto i portici incompleti della mia Basilica. I ponteggi di legno, scuri di pece e nodosi, si arrampicavano come scheletri lungo la facciata, avvolgendo l’edificio in un reticolo che pareva sospeso nel tempo. L’odore resinoso del legno umido si mescolava all’acre profumo dei metalli arroventati, portato dal vento dai laboratori d’oreficeria poco distanti.
Non ero solo.
Le ombre si allungavano attorno ai lavoranti che, sulle impalcature, sagomavano le ultime cornici di pietra.
Nella penombra, qualche figura nota si muoveva a distanza: una conversazione a bassa voce, l’eco di passi sul selciato.
L’aria era densa di sussurri, come se troppe menti, troppi progetti fossero giunti a compimento insieme, nel cuore della città.
Quel giorno, sotto i miei occhi stanchi, prendeva forma il Gioiello di Vicenza: sarà un ex voto alla Madonna di Monte Berico, quello che ora coinvolgeva mani, talenti e pareri che trascendevano i confini delle nostre mura.
Francesco Albanese, ancora giovane ai miei occhi, accompagnava Matteo Priuli, dietro ai passi miei e del vescovo anziano, Niccolò Ridolfi.
Avevo intravisto quanto meno i suoi consigli nei dettagli dell'opera in legno sottostante, in quelle superfici pronte ad accogliere l’argento che lo stava nobilitando.
Da Venezia era giunto il Vittoria.
Conoscevo Alessandro, avevamo già lavorato insieme, così come venivano a salutarlo in tanti tra i gentiluomini che ci circondavano.
La sua reputazione lo precedeva anche nei commenti tra gli artigiani della Basilica e del Palazzo del Capitaniato, sull'altro fronte della piazza: per tutti era il magnifico scultore di ritratti implacabili, l'uomo di scarse parole e di gesti misurati.
L’avevo scorto poco prima, sfiorare con le dita un pezzo d’argento cesellato ancora da mo***re, come a misurare la purezza del metallo e la pulizia del tratto. Ma il suo sguardo non era rivolto solo all’oggetto. Aveva studiato, più che altro, gli uomini al lavoro. Non intervenne, non allora.
V'era un altro, giunto da più lontano, che non passava inosservato. Hendrik, o almeno così si faceva chiamare (...)
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Il giorno stava calando quando mi fermai sotto i portici incompleti della mia Basilica. I ponteggi di legno, scuri di pece e nodosi, si arrampicavano come scheletri lungo la facciata, avvolgendo l’edificio in un reticolo che pareva sospeso nel tempo. L’odore resinoso del legno umido si mescolava...